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Il Peso dell’Onore
Morgan Rice


Re e Stregoni #3
Un fantasy pieno zeppo d’azione che piacerà sicuramente ai fan dei precedenti romanzi di Morgan Rice, oltre che ai fan di opere come Il Ciclo dell’Eredità di Christopher Paolini… I fan di romanzi fantasy per ragazzi divoreranno quest’ultima opera della Rice e imploreranno di averne ancora. The Wanderer, A Literary Journal (parlando di L’Ascesa dei Draghi) The #1 Bestselling series! La serie campione d’incassi numero #1! IL PESO DELL’ONORE è il terzo libro della serie fantasy epica RE E STREGONI (che inizia con L’ASCESA DEI DRAGHI, disponibile per il download gratuito) ! In IL PESO DELL’ONORE, Kyra finalmente incontra il suo criptico zio ed è scioccata di scoprire che non è l’uomo che si aspettava. Intraprende un periodo di allenamento che metterà alla prova la sua resistenza e la sua frustrazione, portandola ad incontrare i limiti del suo potere. Incapace di richiamare il suo drago, incapace di cercare nel profondo di sé e sentendo l’urgenza di aiutare suo padre in guerra, Kyra dubita di divenire mai il guerriero che pensava di essere. Quando incontra un ragazzo misterioso, più potente di lei, nel fitto della foresta, si chiede quale futuro ci sia realmente in serbo per lei. Duncan deve salire i picchi di Kos con il suo esercito e, ampiamente in minoranza, lanciare una rischiosa invasione alla capitale. Se vincerà sa che ad aspettarlo dietro alle sue antiche mura ci saranno il vecchio re e un covo di nobili ed aristocratici, tutti con i loro programmi, tutti talmente rapidi a tradire quanto ad abbracciare. Unire Escalon potrebbe essere effettivamente più difficile che liberarla. Alec, a Ur, deve mettere a frutto le sue uniche abilità nella forgia per aiutare a difendere contro l’incombente invasione di Pandesia. Rimane affascinato dall’incontro con Dierdre, la ragazza più forte che abbia mai conosciuto. Questa volta lei ha la possibilità di opporsi a Pandesia e mentre coraggiosamente li sfida, si chiede se suo padre e i suoi uomini questa volta la terranno con loro. Merk finalmente entra nella torre di Ur ed è stupito da ciò che scopre. Iniziato al suo strano codice e alle sue regole, incontra i suoi compagni Sorveglianti, i più duri guerrieri che abbia mai conosciuto, e capisce che guadagnarsi il loro rispetto non sarà facile. Con un’invasione che incombe, devono tutti preparare la torre, anche se tutti i suoi passaggi segreti potrebbe non mantenerli al sicuro dal tradimento che si cela in agguato proprio all’interno. Vesuvio conduce i suoi troll attraverso la vulnerabile Escalon, devastando la terra, mentre Theo, infuriato per ciò che ne è di suo figlio, dà lui stesso in escandescenze e non si fermerà fino a che tutta Escalon sarà in fiamme. Con la sua forte atmosfera e i suoi personaggi complessi, IL PESO DELL’ONORE è una grande saga di cavalieri e guerrieri, di re e signori, d’onore e valore, di magia, destino, mostri e draghi. È una storia d’amore e cuori spezzati, di inganno, ambizione e tradimento. È un fantasy al meglio di sé, che ci invita in un mondo che vivrà con noi per sempre, un mondo che affascinerà lettori e lettrici di ogni età. Il quarto libro #4 è di prossima uscita. Se pensavate che non ci fosse altra ragione di vita dopo la fine della serie L’Anello dello stregone, vi sbagliavate. In L’ASCESA DEI DRAGHI Morgan Rice ha raggiunto ciò che promette di essere un’altra saga brillante, immergendoci in un mondo fantasy fatto di troll e draghi, pregno di valore, coraggio, magia e fede nel destino. Morgan è riuscita un’altra volta a produrre un forte gruppo di personaggi che ci fanno tifare per loro pagina dopo pagina… Fortemente consigliato per la libreria permanente di tutti quei lettori che amano storie fantasy ben scritte. Books and Movie Reviews, Roberto Mattos (parlando di L’Ascesa dei Draghi) L’ASCESA DEI DRAGHI ha successo – già dall’inizio – … Un fantasy superiore… Inizia, come è gusto, con la lotta e le mosse di una protagonista ben inserita nell’ampia cerchia di cavalieri, draghi, magia, mostri e destino… Tutti i dettagli di un fantasy di alto livello sono qui, dai soldati e le battaglie ai confronti con se stesso… Un testo raccomandato a chi ama il fantasy epico pieno di protagonisti giovani, potenti e credibili. Midwest Book Review, D. Donovan, eBook Reviewer (parlando di L’Ascesa dei Draghi) Un romanzo dalla sapiente trama, facile da leggere in un fine settimana… Un buon inizio per una serie promettente. San Francisco Book Review (parlando di L’Ascesa dei Draghi)





Morgan Rice

Il Peso dell’Onore (Re e Stregoni—Libro #3)




EDIZIONE ITALIANA


A CURA DI


ANNALISA LOVAT



Morgan Rice

Morgan Rice è autrice numero uno e oggi autrice statunitense campione d’incassi delle serie epiche fantasy L’ANELLO DELLO STREGONE, che comprende diciassette libri, della serie campione d’incassi APPUNTI DI UN VAMPIRO, che comprende undici libri (e che continuerà a pubblicarne altri); della serie campione d’incassi LA TRILOGIA DELLA SOPRAVVIVENZA, un thriller post-apocalittico che comprende due libri (e che continuerà a pubblicarne); e della nuova serie epica fantasy RE E STREGONI, che comprende tre libri (e continuerà a pubblicarne altri). I libri di Morgan sono disponibili in formato stampa e audio e sono tradotti in 25 lingue.

TRAMUTATA (Libro #1 in Appunti di un Vampiro) ARENA UNO (Libro #1 de La Trilogia della Sopravvivenza),UN’IMPRESA DA EROI (Libro #1 in L’Anello dello Stregone) e L’ASCESA DEI DRAGHI (Libro 1 un Re e Stregoni) sono tutti disponibili per essere scaricati gratuitamente!

Morgan ama ricevere i vostri messaggi e commenti, quindi sentitevi liberi di visitare il suo sito www.morganricebooks.com per iscrivervi alla sua mailing list, ricevere un libro in omaggio, gadget gratuiti, scaricare l’app gratuita e vedere in esclusiva le ultime notizie. Connettetevi a Facebook e Twitter e tenetevi sintonizzati!



Cosa dicono di Morgan Rice

“Se pensavate che non ci fosse più alcuna ragione di vita dopo la fine della serie L’ANELLO DELLO STREGONE, vi sbagliavate. In L’ASCESA DEI DRAGHI Morgan Rice è arrivata a ciò che promette di essere un’altra brillante saga, immergendoci in un mondo fantastico fatto di troll e draghi, di valore, onore e coraggio, magia e fede nel proprio destino. Morgan è riuscita di nuovo a creare un forte insieme di personaggi che ci faranno tifare per loro pagina dopo pagina… Consigliato per la biblioteca permanente di tutti i lettori amanti dei fantasy ben scritti.”



В В В В --Books and Movie Reviews
В В В В Roberto Mattos

“L'ASCESA DEI DRAGHI ottiene grande successo direttamente dall'inizio… Un fantasy superiore… Inizia, come dovrebbe, con le lotte di un protagonista e si sposta poi nettamente verso una cerchia più ampia di cavalieri, draghi, magia, mostri e destino… Vi si trovano tutti gli intrighi di un fantasy di alto livello, dai soldati e le battaglie ai confronti con se stessi… Un libro di successo raccomandato per coloro che amano le storie epiche e fantasy pregne di giovani protagonisti potenti e credibili.”



В В В В --Midwest Book Review
В В В В D. Donovan, eBook Reviewer

“Un fantasy pieno zeppo di azione che sicuramente verrà apprezzato dai fan dei precedenti romanzi di Morgan Rice insieme ai sostenitori di opere come il CICLO DELL’EREDITÀ di Christopher Paolini… Amanti del fantasy per ragazzi divoreranno quest'ultima opera della Rice e imploreranno di averne ancora.”



В В В В --The Wanderer,A Literary Journal (Parlando de L'Ascesa dei Draghi)

“Un meraviglioso fantasy nel quale si intrecciano elementi di mistero e intrigo. Un’impresa da eroi parla della presa di coraggio e della realizzazione di uno scopo di vita che porta alla crescita, alla maturità e all’eccellenza… Per quelli che cercano corpose avventure fantasy: qui i protagonisti, gli stratagemmi e l’azione forniscono un vigoroso insieme di incontri che ben si concentrano sull’evoluzione di Thor da ragazzino sognatore e giovane che affronta l’impossibile pur di sopravvivere… Solo l’inizio di ciò che promette di essere una serie epica per ragazzi.”



В В В В --Midwest Book Review (D. Donovan, eBook Reviewer)

“L’ANELLO DELLO STREGONE ha tutti gli ingredienti per un successo immediato: intrighi, complotti, mistero, cavalieri valorosi, storie d’amore che fioriscono e cuori spezzati, inganno e tradimento. Una storia che vi terrà incollati al libro per ore e sarà in grado di riscuotere l’interesse di persone di ogni età. Non può mancare sugli scaffali dei lettori di fantasy.”



В В В В --Books and Movie Reviews, Roberto Mattos

“In questo primo libro pieno zeppo d’azione della serie epica fantasy L’Anello dello Stregone (che conta attualmente 14 libri), la Rice presenta ai lettori il quattordicenne Thorgrin “Thor” McLeod, il cui sogno è quello di far parte della Legione d’Argento, i migliori cavalieri al servizio del re… Lo stile narrative della Rice è solido e le premesse sono intriganti.”



В В В В --Publishers Weekly



Libri di Morgan Rice

RE E STREGONI

L’ASCESA DEI DRAGHI (Libro #1)

L’ASCESA DEL PRODE (Libro #2)

IL PESO DELL’ONORE (Libro #3)



L'ANELLO DELLO STREGONE

UN'IMPRESA DA EROI (Libro #1)

LA MARCIA DEI RE(Libro #2)

DESTINO DI DRAGHI (Libro #3)

GRIDO D'ONORE (Libro #4)

VOTO DI GLORIA (Libro #5)

UN COMPITO DI VALORE (Libro #6)

RITO DI SPADE (Libro #7)

CONCESSIONE D'ARMI (Libro #8)

UN CIELO DI INCANTESIMI (Libro #9)

UN MARE DI SCUDI (Libro #10)

UN REGNO D'ACCIAIO (Libro #11)

LA TERRA DEL FUOCO (Libro #12)

LA LEGGE DELLE REGINE (Libro #13)

UN GIURAMENTO DI FRATELLI (Libro #14)

UN SOGNO DI MORTALI ( Libro #15)

UN TORNEO DI CAVALIERI (Libro #16)

IL DONO DELLA BATTAGLIA (Libro #17)



LA TRILOGIA DELLA SOPRAVVIVENZA

ARENA UNO: MERCANTI DI SCHIAVI ( Libro #1)

ARENA DUE ( Libro #2)



APPUNTI DI UN VAMPIRO

TRAMUTATA ( Libro #1)

AMATA ( Libro #2)

TRADITA ( Libro #3)

DESTINATA ( Libro #4)

DESIDERATA (Libro #5)

PROMESSA ( Libro #6)

SPOSA ( Libro #7)

TROVATA ( Libro #8)

RISORTA ( Libro #9)

BRAMATA ( Libro #10)

PRESCELTA ( Libro #11)












Ascolta RE E STREGONI nella sua edizione Audio libro!


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Copyright В© 2015 by Morgan Rice

All rights reserved. Except as permitted under the U.S. Copyright Act of 1976, no part of this publication may be reproduced, distributed or transmitted in any form or by any means, or stored in a database or retrieval system, without the prior permission of the author.

This ebook is licensed for your personal enjoyment only. This ebook may not be re-sold or given away to other people. If you would like to share this book with another person, please purchase an additional copy for each recipient. If you’re reading this book and did not purchase it, or it was not purchased for your use only, then please return it and purchase your own copy. Thank you for respecting the hard work of this author.

This is a work of fiction. Names, characters, businesses, organizations, places, events, and incidents either are the product of the author’s imagination or are used fictionally. Any resemblance to actual persons, living or dead, is entirely coincidental.

Jacket image Copyright breakermaximus, used under license from Shutterstock.com.








“Se perdo il mio onore, perdo me stesso.”

В В В В --William Shakespeare
В В В В  Antonio e Cleopatra






CAPITOLO UNO


Theo volava verso la campagna, spinto da una rabbia che non era più in grado di trattenere. Non gli interessava più quale fosse il suo bersaglio: l’avrebbe fatta pagare all’intera razza umana, all’intera terra di Escalon per la perdita del suo uovo. Avrebbe distrutto tutto il mondo fino a che non avrebbe trovato ciò che stava cercando.

Theo era straziato dall’ironia di tutta la situazione. Era fuggito dalla sua terra natia per proteggere l’uovo, per risparmiare a suo figlio l’ira degli altri draghi, tutti minacciati dalla sua nascita, dalla profezia che quel cucciolo sarebbe diventato il capo di tutti i draghi. Tutti avevano desiderato distruggerlo e questo Theo non avrebbe mai potuto permetterlo. Si era battuto contro i suoi compagni draghi, era stato gravemente ferito nello scontro, se n’era andato, ferito, volando per migliaia di chilometri al di sopra di molti grandi mari fino ad arrivare lì, in quell’isola di umani, in quel luogo dove gli altri draghi non sarebbero mai venuti a cercarlo. E tutto per trovare uno riparo sicuro per il suo uovo.

Ma quando era atterrato, Theo aveva messo l’uovo sul remoto suolo della foresta rendendosi vulnerabile. E l’aveva pagata cara venendo attaccato e ferito dai soldati pandesiani, costretto a fuggire di fretta abbandonando l’uovo e aiutato solo da quell’umana, Kyra. In quella confusa notte, nel mezzo della tempesta di neve e dei venti che infuriavano, non era più stato capace di ritrovare l’uovo, sepolto nella neve. Aveva voltato in cerchio più volte, era ripetutamente tornato sul posto, ma niente. Era stato un errore per cui si odiava, un errore per il quale biasimava la razza umana e per il quale mai e poi mai avrebbe perdonato.

Theo volò ancora più veloce, aprì le enormi fauci e ruggì di rabbia, un ruggito che fece scuotere gli alberi. Quindi soffiò un fiume di fiamme, così caldo da far arretrare addirittura lui stesso. Fu un getto enorme, abbastanza forte da spazzare via un’intera città, e andò a colpire un bersaglio a caso: un piccolo paesino di campagna che aveva avuto la sventura di trovarsi sul suo cammino. Là sotto alcune centinaia di umani, sparpagliati tra fattorie e frutteti, non avevano idea della morte che stava per raggiungerli.

Sollevarono lo sguardo con i volti paralizzati dall’orrore mentre le fiamme scendevano verso di loro, ma ormai era troppo tardi. Gridarono e corsero per salvarsi, ma la nube di fuoco li raggiunse. Le fiamme non risparmiarono nessuno: uomini, donne, bambini, contadini, guerrieri, tutti quelli che correvano e tutti quelli che restavano immobili. Theo sbatté le sue grandi ali e incendiò ogni cosa: le loro case, le loro armi, il loro bestiame, i loro possedimenti. L’avrebbero pagata tutti, fino all’ultimo.

Quando Theo alla fine tornò verso l’alto, non era rimasto nulla. Dove prima si trovava il villaggio ora c’era solo un enorme incendio, fuoco che presto avrebbe ridotto tutto in cenere. Theo pensò: dalle ceneri gli uomini sono stati generati e cenere torneranno.

Non rallentò. Continuò a volare restando basso verso terra, ruggendo, eliminando progressivamente gli alberi, prendendo i rami con gli artigli e facendoli a brandelli insieme alle foglie. Volava all’altezza delle cime degli alberi creando un sentiero, sempre continuando a sputare fiamme. Mentre avanzava lasciava dietro di sé una lunga scia di fuoco, una cicatrice sulla terra, una strada di fiamme per cui Escalon si sarebbe sempre ricordata di lui. Incendiò grandi porzioni del Bosco di Spine sapendo che per migliaia di anni non sarebbe più ricresciuto nulla, sapendo di lasciare sulla terra quella grande ferita e provandone una certa soddisfazione. Si rese conto, anche mentre sputava fuoco, che quelle fiamme avrebbero potuto colpire e bruciare l’uovo stesso. Ma ciononostante, sopraffatto dalla rabbia e dalla frustrazione, non era in grado di fermarsi.

Mentre volava, gradualmente il paesaggio cambiava sotto di lui. Boschi e prati lasciavano il posto a edifici di pietra. Theo guardò in basso e vide che stava volando al di sopra di un’ampia guarnigione, piena zeppa di migliaia di soldati dalle armature blu e gialle. Pandesiani. I soldati guardarono il cielo terrorizzati e confusi, con le armature che scintillavano. Alcuni, quelli più arguti, fuggirono. I coraggiosi rimasero sul posto mentre lui si avvicinava, tirandogli contro le loro lance e giavellotti.

Theo soffiò e bruciò tutte le armi a mezz’aria facendole ricadere a terra in una pila di ceneri. Le fiamme continuarono a scendere fino a raggiungere i soldati che ora stavano fuggendo, bruciandoli vivi, intrappolati nelle loro lucide divise di metallo. Theo sapeva che presto quelle armature sarebbero diventate dei gusci arrugginiti abbandonati a terra e la guarnigione sarebbe stata ridotta a un enorme calderone di fuoco.

Theo andò avanti, volando verso nord, incapace di fermarsi. Il paesaggio cambiava continuamente e lui non rallentò neppure quando scorse una cosa curiosa: lì sotto, in lontananza, apparve una creatura enorme, un gigante che sbucava da un cunicolo scavato nel terreno. Era una creatura diversa da quanto Theo avesse mai potuto vedere in vita sua, una creatura potente. Eppure non provò alcuna paura: al contrario si sentì pervadere dalla rabbia. Rabbia perché quell’essere si trovava sul suo cammino.

La bestia sollevò lo sguardo e sul suo volto grottesco apparve la paura mentre Theo volava più in basso. Anche il gigante si voltò per fuggire, per tornare al buco da dove era emerso. Ma Theo non l’avrebbe lasciato fuggire così facilmente. Se non poteva trovare suo figlio, allora li avrebbe distrutti tutti, uomini e bestie senza differenza. E non si sarebbe fermato fino a che tutti e qualsiasi cosa a Escalon non fossero stati spazzati via.




CAPITOLO DUE


Vesuvio si trovava nella galleria e sollevò lo sguardo verso i raggi di luce che lo illuminavano, luce del sole di Escalon. Si crogiolò nella più dolce sensazione mai provata in vita sua. Quel foro in alto sopra di lui e quei raggi che lo colpivano rappresentavano una vittoria più grandiosa di quanto avrebbe mai potuto sognare, il completamento del tunnel che aveva immaginato per tutta la sua vita. Altri avevano detto che non si poteva costruire e Vesuvio sapeva di aver ottenuto ciò che suo padre e il padre di suo padre ancora prima non erano riusciti a raggiungere. Aveva creato un passaggio perché l’intera nazione di Marda potesse invadere Escalon.

La polvere ancora vorticava alla luce, le macerie ancora riempivano l’aria dove il gigante aveva creato un buco con i suoi pugni attraverso il soffitto. Mentre Vesuvio vi guardava attraverso, sapeva che quel buco là in alto rappresentava il suo destino. La sua intera nazione l’avrebbe seguito da vicino: presto tutta Escalon sarebbe stata sua. Sorrise già immaginando la violenza, la tortura e la distruzione che lo stavano aspettando. Sarebbe stato un bagno di sangue. Avrebbe creato una nazione di schiavi e lo stato di Marda sarebbe raddoppiato in misura, anche come territorio.

“NAZIONE DI MARDA, AVANTI!” gridò.

Si levò un forte grido alle sue spalle mentre centinaia di troll si riunivano nella galleria e sollevavano le alabarde lanciandosi alla carica insieme a lui. Vesuvio fece strada risalendo verso l’uscita, scivolando e incespicando nella terra e sulla roccia, avanzando verso l’apertura, verso la conquista. Con Escalon in vista si sentiva fremere per l’eccitazione mentre il terreno tremava sotto di lui. Gli scossoni erano generati anche dalle grida del gigante in alto, pure lui evidentemente felice di essere libero. Vesuvio poteva già immaginare i danni che il gigante avrebbe potuto causare là sopra, lasciato libero di dare in escandescenze, seminando il terrore nella campagna. Sorrise con maggiore enfasi. Avrebbe avuto la sua dose di divertimento e quando se ne fosse stancato l’avrebbe ucciso. Nel frattempo era un’arma di valore nello scompiglio e nel terrore che voleva generare.

Vesuvio sollevò lo sguardo e sbatté le palpebre confuso vedendo il cielo improvvisamente oscurarsi sopra di lui. Poi sentì una forte ondata di calore venire innanzi. Fu stupito di vedere un muro di fiamme che scendeva ricoprendo all’improvviso tutta la campagna. Non riusciva a capire cosa stesse succedendo, quando un’orrenda ondata di calore lo raggiunse scaldandogli la faccia, seguita da un ruggito del gigante. Poi si udì un tremendo grido di dolore. Il gigante inciampò, chiaramente colpito da qualcosa, e Vesuvio guardò in alto terrorizzato vedendolo inspiegabilmente voltarsi e tornare indietro. Con il volto mezzo bruciato corse di nuovo verso la galleria, sottoterra, dritto verso di lui.

Vesuvio lo fissava ma non riusciva a comprendere l’incubo che gli si stava dispiegando davanti. Perché il gigante stava tornando indietro? Qual era la fonte di quel calore? Cosa gli aveva bruciato la faccia?

Vesuvio udì poi un battito d’ali, un ruggito ancora più orribile di quello del gigante. E capì. Ebbe un brivido comprendendo che lassù, in volo sopra di loro, c’era qualcosa di ancora più terribile del gigante. Era qualcosa che Vesuvio non aveva mai pensato di poter incontrare in vita sua: un drago.

Vesuvio rimase immobile, paralizzato dalla paura per la prima volta in vita sua. L’intero esercito dei suoi troll erano pietrificati dietro di lui, tutti in trappola. L’inimmaginabile era accaduto: il gigante stava correndo, spaventato da qualcosa di più grande di lui stesso. Bruciato, dolorante, preso dal panico, il gigante fece roteare i suoi enormi pugni mentre scendeva, facendosi strada con artigliate feroci. Vesuvio guardò con orrore mentre tutt’attorno a lui i troll venivano schiacciati. Qualsiasi cosa si venisse a trovare sul cammino del gigante veniva calpestata dai suoi piedi, tagliata a metà dai suoi artigli, schiacciata dai suoi pugni.

E poi, prima che si potesse levare di mezzo, Vesuvio sentì che le sue stesse costole si spezzavano mentre il gigante lo colpiva lanciandolo in aria.

Si sentì mancare il fiato roteando in aria mentre tutto il mondo attorno a lui girava. L’ultima cosa che percepì fu la sua testa che andava a sbattere contro la roccia, il tremendo dolore che gli scorreva in tutto il corpo mentre colpiva la parete di pietra. Quando iniziò a precipitare verso terra perse conoscenza e l’ultima cosa che vide fu il gigante che stava distruggendo tutto, disfacendo i suoi piani, tutto ciò per cui aveva lavorato. Si rese conto che sarebbe morto lì, ben sottoterra, a pochi passi dal sogno che aveva coltivato fino a quel momento e che aveva quasi realizzato.




CAPITOLO TRE


Duncan sentiva l’aria scorrergli contro mentre scivolava lungo la corda al tramonto, scendendo le maestose cime del Kos e tenendosi con tutto se stesso, scivolando sempre più rapidamente, più veloce di quanto immaginasse possibile. Tutt’attorno a lui anche gli altri uomini si stavano calando: Anvin ed Arthfael, Seavig, Kavos, Bramthos e migliaia di altri appartenenti agli eserciti di Duncan, Seavig e Kavos, tutti insieme in un unico esercito, tutti intenti a scivolare sul ghiaccio in file, un esercito ben disciplinato che procedeva a balzi, tutti desiderosi di raggiungere il fondo prima di essere visti. Quando i piedi di Duncan toccavano il ghiaccio, immediatamente si spingeva di nuovo procedendo verso il basso, evitando così che le mani venissero fatte a pezzi grazie agli spessi guanti che Kavos gli aveva dato.

Duncan era meravigliato di quanto rapidamente si muovesse il suo esercito, tutti in una sorta di caduta libera dalla rupe. Quando si era trovato in cima a Kos non aveva idea di come Kavos avesse programmato di portare un esercito di quella entità in basso tanto rapidamente senza perdere uomini. Non si era reso conto di possedere una così intricata varietà di funi e picconi da permettere loro di scendere tanto agevolmente. C’erano uomini fatti per il ghiaccio e per loro quella discesa alla velocità della luce era come una normale passeggiata. Finalmente capiva cosa volevano dire quando dicevano che gli uomini di Kos non erano intrappolati lassù, ma erano piuttosto i Pandesiani di sotto quelli in trappola.

Kavos improvvisamente si fermГІ atterrando con entrambi i piedi su un ampio tavolato che sporgeva dalla montagna. Duncan gli si fermГІ accanto insieme a tutti gli uomini, in una momentanea pausa a metГ  del versante. Kavos si portГІ al limitare del precipizio e Duncan lo raggiunse chinandosi in avanti e guardando le funi che penzolavano di sotto. Attraverso le corde, molto in basso, in mezzo alla nebbia e agli ultimi raggi di sole, Duncan potГ© vedere alla base della montagna il forte in pietra dei Pandesiani, gremito di migliaia di soldati.

Duncan guardò Kavos che ricambiò lo sguardo con la soddisfazione negli occhi. Era una soddisfazione che Duncan riconobbe, una determinazione che aveva visto molte volte in vita sua: l’estasi del vero guerriero che sta per andare in guerra. Era ciò per cui vivevano uomini come Kavos. Duncan stesso la provava, doveva ammetterlo: quel formicolio nelle vene, quella tensione allo stomaco. La vista dei Pandesiani lo rendeva come non mai eccitato per la vicina battaglia.

“Saresti potuto scendere ovunque,” disse Duncan esaminando il paesaggio di sotto. “La maggior parte dell’area è vuota. Avremmo potuto evitare il confronto e muoverci direttamente verso la capitale. Eppure hai scelto il punto in cui si trova il più forte contingente di Pandesiani.”

Kavos fece un largo sorriso.

“Proprio così,” rispose. “Gli uomini di Kavos non tentano di evitare il confronto: noi lo cerchiamo.” Sorrise con maggiore evidenza. “E poi,” aggiunse, “una battaglia anticipata farà da riscaldamento per la nostra marcia verso la capitale. E voglio che questi Pandesiani ci pensino due volte la prossima volta che decideranno di circondare la base della nostra montagna.”

Kavos si voltò e fece un cenno al suo comandante, Bramthos, che chiamò a raccolta i loro uomini e si unì a Kavos: tutti insieme si lanciarono verso un enorme masso di ghiaccio al limitare del pendio e come un unico corpo vi appoggiarono contro le spalle.

Duncan, rendendosi conto di ciГІ che stavano facendo, fece un cenno ad Anvin ed Arthfael che chiamarono pure i loro uomini. Seavig e i suoi si unirono e tutti insieme anche loro si misero a spingere.

Duncan piantò i piedi nel ghiaccio e spinse, sforzandosi sotto il peso del masso, scivolando e premendo con tutte le sue forze. Tutti sbuffarono e lentamente l’enorme macigno iniziò a rotolare.

“Un regalo di benvenuto?” chiese Duncan sorridendo e sbuffando accanto a Kavos.

Kavos gli rispose con un sorriso.

“Solo un pensierino per annunciare il nostro arrivo.”

Un attimo dopo Duncan provò una forte liberazione, udì uno scricchiolio nel ghiaccio e si chinò in avanti per guardare con meraviglia il masso che rotolava oltre il limitare dell’altopiano. Si tirò rapidamente indietro insieme agli altri e guardò il masso che precipitava a tutta velocità, rotolando e rimbalzando contro la parete di ghiaccio, prendendo man mano slancio. Il grosso sasso, con un diametro di almeno dieci metri, cadde dritto verso il basso, volando come un angelo della morte contro il forte pandesiano. Duncan si preparò per l’esplosione che stava per verificarsi, con tutti quei soldati di sotto, bersagli inconsapevoli.

Il masso colpì il centro del forte di pietra e lo schianto fu più forte di qualsiasi cosa Duncan avesse mai udito in vita sua. Era come se una meteora avesse colpito Escalon, un’esplosione che riecheggiò con tale forza da costringerlo a coprirsi le orecchie. Il suolo tremò sotto di lui facendolo barcollare. Un’enorme nuvola di roccia e ghiaccio si sollevò per metri e metri e l’aria, anche da lassù, si riempì delle grida e urla terrorizzate degli uomini. Metà del forte in pietra era andato distrutto nell’impatto e il masso continuava a rotolare schiacciando uomini, appiattendo edifici e lasciando una scia di distruzione e caos.

“UOMINI DI KOS!” gridò Kavos. “Chi ha osato avvicinarsi alla nostra montagna?”

Gli rispose un forte grido mentre migliaia di guerrieri improvvisamente si lanciavano in avanti e balzavano dalla rupe seguendolo, tutti afferrando le funi e calandosi così velocemente che era come se praticamente cadessero liberamente dalla montagna. Duncan li seguì, i suoi uomini dietro di lui, tutti saltando, afferrando le funi e scendendo così rapidamente da poter appena respirare. Era certo che si sarebbe spezzato il collo nell’impatto.

Pochi attimi dopo si ritrovò ad atterrare con forza alla base della montagna, decine di metri più sotto, scendendo in un’enorme nube di ghiaccio e polvere, il fragore del masso caduto ancora riecheggiante nell’aria. Tutti gli uomini si voltarono e guardarono il forte, quindi lanciarono un alto grido di battaglia e sguainarono le spade lanciandosi all’attacco, buttandosi nel caos del campo pandesiano.

I soldati pandesiani, ancora sbigottiti per l’esplosione, si voltarono mostrando volti scioccati e videro l’esercito all’attacco: evidentemente non se l’erano aspettato. Frastornati, presi alla sprovvista, con numerosi dei loro comandanti a terra morti, schiacciati dal masso, sembravano troppo disorientati per pensare chiaramente a cosa fare. Mentre Duncan e Kavos e i loro uomini piombavano su di loro, alcuni iniziarono a voltarsi e a correre. Altri cercarono di prendere le spade, ma Duncan e i suoi uomini gli furono addosso come locuste e li colpirono prima che potessero addirittura avere una possibilità di sguainare le armi.

Duncan e il resto degli uomini correvano attraverso il campo, senza esitazione, sapendo che il tempo era essenziale. Uccidevano da ogni parte i soldati che si stavano riprendendo, seguendo la scia di distruzione lasciata dal macigno. Duncan colpiva in ogni direzione, trafiggendo un soldato al petto, colpendone un altro al volto con l’elsa della spada, calciandone uno che lo attaccava e abbassandosi per spingere con la spalla un altro ancora mentre tentava di colpirlo alla testa con un’ascia. Duncan avanzava senza sosta abbattendo chiunque si trovasse sul suo cammino, respirando affannosamente, sapendo che erano ancora in minoranza numerica e che doveva ucciderne più che poteva e con la maggior rapidità possibile.

Accanto a lui Anvin, Arthfael e i suoi uomini lo seguivano, tutti guardandosi vicendevolmente alle spalle, tutti lanciati in avanti a colpire e parare da ogni parte mentre il clangore della battaglia riempiva il forte. Coinvolto in una guerra vera e propria, Duncan sapeva che sarebbe stato più saggio aver conservato l’energia dei suoi uomini, aver evitato quel confronto e aver marciato verso Andros. Ma sapeva anche che l’onore implicava che gli uomini di Kos affrontassero quella battaglia. Capiva come si sentivano: non era sempre il corso più saggio delle azioni a muovere i cuori degli uomini.

Si muovevano tutti attraverso il campo con rapiditГ  e disciplina. I Pandesiani erano in tale disorganizzazione da essere appena capaci di mettere insieme una specie di difesa. Ogni volta che un comandante appariva o si formava un gruppo, Duncan e i suoi uomini li debellavano.

Duncan e i suoi uomini attraversarono il forte come una tempesta e dopo neanche un’ora Duncan si ritrovò dalla parte opposta a guardarsi da tutte le parti rendendosi conto, schizzato di sangue ovunque, che non c’era più nessuno da uccidere. Rimase fermo respirando affannosamente mentre calava il tramonto e la nebbia vorticava attorno alle montagne, tutto misteriosamente silenzioso.

Il forte era loro.

Gli uomini, capendo, lanciarono uno spontaneo grido di esultanza e Duncan rimase dov’era mentre Anvin, Arthfael, Seavig, Kavos e Bramthos gli si raccolsero attorno mentre lui asciugava il sangue dalla sua spada e dall’armatura contemplando la situazione. Notò una ferita con sangue fresco sul braccio di Kavos.

“Sei ferito,” gli fece notare, dato che non sembrava essersene accorto.

Kavos abbassГІ lo sguardo e poi scrollГІ le spalle. Sorrise.

“Un meraviglioso graffito,” rispose.

Duncan osservò il campo di battaglia, così tanti uomini morti, soprattutto Pandesiani ma anche alcuni dei suoi. Poi sollevò lo sguardo e vide i picchi ghiacciati di Kos, torreggianti al di sopra della scena, che scomparivano tra le nubi. Era sorpreso di quanto in alto si fossero arrampicati e di quanto rapidamente fossero scesi. Era stato un attacco fulmineo, come morte piovuta dal cielo, e aveva funzionato. Il forte pandesiano che solo poche ore prima sembrava così indomito ora gli apparteneva e non era più nient’altro che rovine, con gli uomini a terra in pozze di sangue, la morte sotto il cielo del crepuscolo. Era surreale. I guerrieri di Kos non avevano risparmiato nessuno, non avevano avuto alcuna pietà ed erano stati una forza irrefrenabile. Duncan aveva un onesto rispetto per tutti loro. Sarebbero stati dei compagni fondamentali nella liberazione di Escalon.

Kavos guardГІ i cadaveri, anche lui respirando affannosamente.

“Questo è quello che chiamo un piano d’uscita,” disse.

Duncan lo vide sorridere mentre osservava i corpi dei nemici, guardando i suoi uomini che spogliavano i morti delle loro armi.

Duncan annuì.

“E si è trattato di un’ottima uscita, direi,” rispose.

Duncan si voltò verso ovest, oltre il forte, verso il sole che tramontava e scorse del movimento. Strizzò gli occhi e vide qualcosa che gli riempì il cuore di calore, una scena che in qualche modo di era aspettato di vedere. Lì all’orizzonte si trovava il suo cavallo da guerra, in piedi fiero davanti al branco di centinaia di cavalli da guerra dietro di lui. Aveva in qualche modo sempre percepito dove Duncan si trovasse ed era lì, in leale attesa. Il cuore di Duncan si gonfiò di gioia sapendo che il suo vecchio amico avrebbe portato il suo esercito per il resto della strada fino alla capitale.

Duncan fischiò e non appena lo sentì il suo cavallo si voltò e gli galoppò incontro. Gli altri cavalli lo seguirono e si levò un forte boato di zoccoli alla luce del crepuscolo mentre il branco attraversava la pianura innevata dirigendosi verso di loro.

Kavos annuì con espressione ammirata.

“Cavalli,” sottolineò guardandoli avvicinarsi. “Se fosse stato per me ci sarei andato a piedi ad Andros.”

Duncan sorrise.

“Sono certo che l’avresti fatto, amico mio.”

Duncan si fece avanti quando il suo cavallo gli giunse accanto e gli accarezzò la criniera. Montò in sella e subito anche i suoi uomini seguirono il suo esempio: un esercito a cavallo. Erano lì, armati fino ai denti guardando il crepuscolo, niente davanti a loro adesso se non la pianura innevata che conduceva alla capitale.

Duncan provò una scossa di eccitazione sentendo che finalmente c’erano quasi. Poteva percepire, sentire l’odore della vittoria nell’aria. Kavos li aveva portati giù dalla montagna, ora questo era il suo spettacolo.

Duncan sollevГІ la spada sentendo tutti gli occhi degli uomini, degli eserciti, addosso a sГ©.

“UOMINI!” esclamò. “Verso Andros!”

Lanciarono tutti un grandioso grido di battaglia e andarono all’attacco insieme a lui, nella notte, nel mezzo delle pianure ammantate di neve, tutti pronti a non fermarsi davanti a nulla fino a che non avessero raggiunto la capitale, scatenando la più grandiosa guerra delle loro vite.




CAPITOLO QUATTRO


Kyra sollevò lo sguardo verso l’alba che si stava levando e vide una figura in piedi davanti a sé, una sagoma che si stagliava contro il sole nascente, un uomo che sapeva poter essere solo suo zio. Sbatté le palpebre incredula mentre lui si faceva avanti. Ecco finalmente l’uomo per cui aveva attraversato Escalon, l’uomo che le avrebbe rivelato il suo destino, l’uomo che l’avrebbe allenata. Ecco il fratello di sua madre, l’unico legame che ancora lei possedeva con la madre che non aveva mai conosciuto.

Il cuore le batteva forte nel petto per l’anticipazione mentre lui si avvicinava uscendo dal fascio di luce e rendendo visibile il proprio volto.

Kyra era stupefatta: le assomigliava in modo pazzesco. Non aveva mai incontrato nessuno che possedesse i suoi tratti, neppure suo padre per quanto lei lo avesse sperato. Si era sempre sentita come una straniera nel mondo, scollegata da qualsiasi vero lignaggio. Ora però, vedendo il volto di quell’uomo, i suoi zigomi alti e ben delineati, i suoi occhi grigi e vivi, un uomo alto e fiero sulla quarantina, con le spalle ampie, muscoloso, rivestito di una scintillante maglia di ferro dorata, con i capelli castano chiaro che gli incorniciavano il mento, la barba non rasata: capì subito che era speciale. E per estensione questo rendeva speciale anche lei. Per la prima volta in vita sua Kyra lo sentiva veramente. Per la prima volta si sentiva collegata a qualcuno, a una linea di sangue potente, a qualcosa di più grande di lei stessa. Sentiva un certo senso di appartenenza al mondo.

Quell’uomo era chiaramente diverso. Era ovviamente un guerriero, fiero e nobile sebbene non avesse nessuna spada, nessuno scudo, nessun’arma di sorta. Con suo stupore e piacere portava con se un unico oggetto: un bastone dorato. Un bastone. Era proprio come lei.

“Kyra,” le disse.

La sua voce le risuonò dentro, una voce così familiare, così simile alla sua. Sentendolo parlare provò non solo un collegamento con lui ma, cosa ancora più eccitante, un collegamento con sua madre. Quello era il fratello di sua madre. Quello era l’uomo che sapeva chi fosse sua madre. Alla fine avrebbe avuto la verità: non ci sarebbero stati più segreti nella sua vita. Molto presto avrebbe saputo tutto sulla donna che aveva sempre desiderato conoscere.

L’uomo abbassò una mano e lei si allungò a prenderla. Si alzò in piedi, le gambe rigide per la lunga notte seduta davanti alla torre. Era una mano forte e muscolosa, ma sorprendentemente liscia, e la aiutò a rimettersi in piedi. Leo ed Andor gli si avvicinarono e Kyra fu sorpresa di vedere che non ringhiavano come era loro solito. Invece si fecero avanti e leccarono la mano dell’uomo come se lo conoscessero da sempre.

Poi, con stupore di Kyra, Leo ed Andor si misero sull’attenti, come se l’uomo l’avesse silenziosamente ordinato loro. Kyra non aveva mai visto una cosa del genere. Quali poteri possedeva quell’uomo?

Non aveva neanche bisogno di chiedergli se fosse suo zio: lo sentiva in ogni parte del suo corpo. Era potente, fiero, proprio come lei aveva sperato che fosse. Ma in lui c’era anche qualcos’altro, qualcosa che non riusciva a comprendere fino in fondo. Era un’energia mistica che irradiava da lui, un’aura di calma e allo stesso tempo di forza.

“Zio,” disse. Le piaceva il suono di quella parola.

“Puoi chiamarmi Kolva,” rispose lui.

Kolva. In qualche modo le suonava come un nome familiare.

“Ho attraversato Escalon per conoscerti,” disse Kyra, nervosa, non sapendo cos’altro dire. Il silenzio mattutino ingoiava le sue parole, le pianure deserte erano riempite solo dal suono del lontano fragore dell’oceano. “Mi ha mandato mio padre.”

Lui le sorrise. Era un sorriso caldo, le linee del viso che si corrugavano come se vivesse da migliaia di anni.

“Non è stato tuo padre a mandarti,” le rispose. “Ma qualcosa di molto più grande.”

Improvvisamente, senza avviso, le voltГІ le spalle e iniziГІ ad allontanarsi appoggiandosi al bastone, prendendo distanza dalla torre.

Kyra lo guardГІ andare, stupita e senza capire: lo aveva offeso?

Si affrettГІ a raggiungerlo, Leo ed Andor alle calcagna.

“La torre,” disse confusa. “Non ci entriamo?”

L’uomo sorrise.

“Un’altra volta, forse,” le rispose.

“Ma pensavo di dover raggiungere la torre.”

“E questo l’hai fatto,” rispose. “Ma non devi entrare.”

Kyra si sforzava di capire mentre camminava rapidamente oltrepassando la linea del bosco e affrettandosi per tenere il passo. I loro bastoni colpivano la terra e le foglie.

“E allora dove ci alleneremo?” gli chiese.

“Ti allenerai dove si allenano tutti i grandiosi guerrieri,” le rispose. Guardò poi davanti a sé: “Nei boschi dietro alla torre.”

Entrò nel bosco muovendosi così velocemente che Kyra doveva quasi correre per stare al passo, anche se sembrava stesse avanzando lentamente. Il mistero attorno a lui si faceva man mano più fitto mentre milioni di domande si rincorrevano nella sua mente.

“Mia madre è viva?” chiese di getto, incapace di contenere la curiosità. “Si trova qui? La conosci?”

L’uomo si limitò a sorriderle e scosse la testa mentre continuavano a camminare.

“Così tante domande,” rispose. Camminò a lungo, la foresta era piena dei versi di strane creature. Alla fine aggiunse: “Domande che scoprirai avere poco significato qui. Le risposte ne hanno ancora meno. Devi imparare a trovare le tue risposte. La fonte delle tue risposte. E cosa ancora più importante, la fonte delle tue domande.”

Kyra si sentiva confusa mentre camminava attraverso la foresta, gli alberi verde chiaro che sembravano luccicare attorno a lei in quel luogo misterioso. Presto perse di vista la torre e l’infrangersi delle onde si fece più lontano e indistinto. Kyra si sforzava di stare al passo mentre il sentiero serpeggiava in ogni direzione.

Stava ardendo per le domande che aveva e alla fine non potГ© piГ№ contenere il suo silenzio.

“Dove mi stai portando?” gli chiese. “È qui che mi allenerai?”

L’uomo continuò a camminare oltre un ruscello scrosciante, svoltando e girando tra alberi antichi con la corteccia che brillava di un verde luminescente. Lei lo seguiva da vicino.

“Non sarò io ad allenarti,” le disse. “Lo farà tuo zio.”

Kyra rimase senza parole.

“Mio zio?” chiese. “Pensavo fossi tu mio zio.”

“Lo sono,” le rispose. “E ne hai un altro.”

“Un altro?” chiese.

Alla fine arrivarono a una radura nel mezzo del bosco e si fermarono al limitare. Kyra, senza fiato, si fermГІ accanto a lui. GuardГІ dritto davanti a sГ© e fu sorpresa da ciГІ che vide.

Dalla parte opposta della radura si trovava un immenso albero, il più grande che mai avesse visto, antico, con i rami che si allungavano in ogni direzione. Aveva foglie brillanti di colore viola, il tronco largo dieci metri. I rami si intrecciavano e incrociavano tra loro creando una piccola casa a forse due o tre metri dal terreno. Sembrava fosse lì da sempre. Una tenue luce proveniva dall’interno dei rami e Kyra sollevò lo sguardo vedendo una figura solitaria seduta in cima che sembrava trovarsi in uno stato di meditazione, fissandoli.

“Anche lui è tuo zio,” disse Kolva.

Il cuore le batteva forte nel petto, non capendo la situazione. Sollevò lo sguardo osservando l’uomo che doveva essere suo zio e si chiese se le stessero facendo uno scherzo. L’altro zio sembrava essere un ragazzo di forse dieci anni. Sedeva perfettamente dritto, come in meditazione, guardando dritto davanti a sé – non proprio guardandola – con scintillanti occhi blu. La sua faccia da ragazzino era segnata da rughe come se avesse mille anni, la pelle era scura e ricoperta da macchie dell’età. Poteva essere alto al massimo un metro e venti. Poteva sembrare un ragazzo con una malattia dell’invecchiamento.

Non aveva proprio idea di cosa fare.

“Kyra,” le disse il primo zio, “questo è Alva.”




CAPITOLO CINQUE


Merk entrò nella Torre di Ur attraversando le alte porte dorate che mai avrebbe pensato di oltrepassare. La luce splendeva così luminosa all’interno da accecarlo quasi. Sollevò le mani per schermarsi gli occhi e subito rimase sbalordito dalla vista che gli si presentò davanti.

Lì di fronte a lui si trovava un vero Sorvegliante, gli occhi gialli perforanti che lo fissavano, gli stessi occhi che lo avevano guardato di soppiatto da dietro la fessura della porta. Indossava una tunica gialla e leggera che gli nascondeva braccia e gambe. La poca carne che si intravedeva era pallida. Era sorprendentemente basso, la mascella allungata, le guance scavate. Mentre lo fissava Merk si sentiva a disagio. La luce abbagliante era emanata dal corto bastone dorato che teneva teso davanti a sé.

Il Sorvegliante lo osservò in silenzio e Merk sentì uno spiffero alle spalle mentre le porte venivano improvvisamente chiuse intrappolandolo nella torre. Il suono vuoto riecheggiò tra le pareti e lui rabbrividì involontariamente. Si rese conto di quanto teso fosse dopo tutti quei giorni passati senza dormire, le notti popolate da sogni turbolenti, l’ossessione di accedere a quel luogo. Trovandovisi all’interno adesso provava una strana sensazione di appartenenza, come se finalmente fosse entrato nella sua nuova casa.

Merk si aspettava che il Sorvegliante gli desse il benvenuto, gli spiegasse dove si trovava. Invece si voltò senza dire una parole e se ne andò lasciandolo lì da solo e pieno di dubbi. Non aveva idea se seguirlo o meno.

Il Sorvegliante si diresse verso una scala a chiocciola in avorio dalla parte opposta della stanza e, con sorpresa di Merk, scese anzichГ© salire. AndГІ giГ№ velocemente e presto scomparve alla vista.

Merk rimase lì in silenzio, disorientato, non sapendo cosa si aspettassero da lui.

“Devo seguirti?” esclamò alla fine.

La sua voce risuonò e gli tornò indietro come un’eco, rimbalzando contro le pareti come a prendersi gioco di lui.

Merk si guardò attorno esaminando l’interno della torre. Vide le pareti, scintillanti, fatte di oro massiccio; vide il pavimento costruito in antico marmo nero striato d’oro. Il posto era in penombra, illuminato solo dal misterioso bagliore che proveniva dalla pareti. Sollevò lo sguardo a vedere l’antica scala a spirale fatta d’avorio. Si avvicinò e allungò il collo vedendo proprio in cima una cupola dorata alta almeno trenta metri dalla quale la luce filtrava verso il basso. Vide in alto tutti i piani, tutte le rampe che conducevano ai diversi livelli. Si chiese quindi cosa ci fosse lassù.

Abbassò poi lo sguardo e, ancora più curioso, vide i gradini che continuavano anche verso il basso, verso dei piani sotterranei, dove era andato il Sorvegliante. Si sentiva pieno di domande. Le bellissime scale d’avorio, somiglianti a un’opera d’arte, ruotavano misteriosamente in entrambe le direzioni, come a salire verso il cielo e a scendere allo stesso tempo verso i più bassi meandri dell’inferno. Merk si chiedeva, soprattutto, se la leggendaria Spada delle Fiamme, la spada che proteggeva tutta Escalon, si trovasse tra quelle mura. Provò un’ondata di eccitazione solo al pensiero. Dove poteva essere? Di sopra o di sotto? Quali altre reliquie e tesori erano contenuti là dentro?

Improvvisamente si aprì una porta segreta da un lato della parete e Merk si voltò vedendo uscirne un guerriero dal volto severo, un uomo pressappoco della sua taglia con indosso una maglia di ferro, la pelle pallida per i troppi anni trascorsi senza vedere la luce del sole. Si diresse verso Merk, un umano con la spada alla cintura e con una evidente insegna, lo stesso simbolo che Merk aveva visto intagliato fuori dalle pareti della torre: una scala d’avorio che si levava verso il cielo.

“Solo i Sorveglianti scendono,” disse l’uomo con voce oscura e rude. “E tu, amico mio, non sei un Sorvegliante. Non ancora, almeno.”

L’uomo si fermò davanti a lui e lo guardò dall’alto al basso tenendo le mani ai fianchi.

“Bene,” continuò. “Suppongo che se ti hanno lasciato entrare deve esserci un motivo.”

SospirГІ.

“Seguimi.”

Detto questo lo sbrigativo guerriero si voltГІ e prese la scala. Il cuore di Merk gli batteva forte nel petto mentre si affrettava per tenere il passo, la testa piena di domande, il mistero di quel posto che si infittiva a ogni passo.

“Fai il tuo lavoro e fallo bene,” disse l’uomo dando le spalle a Merk, la voce oscura e riecheggiante contro le pareti, “e ti verrà concesso di prestare servizio qui. Sorvegliare la torre è il compito più elevato che Escalon abbia da offrire. Devi essere ben più che un mero guerriero.”

Passarono al piano successivo e l’uomo si fermò guardando Merk negli occhi, come se percepisse una qualche profonda verità in lui. Questo fece sentire Merk a disagio.

“Abbiamo tutti dei passati oscuri,” disse l’uomo. “È questo che ci ha portati qui. Quale virtù si cela nella tua oscurità? Sei pronto a nascere di nuovo?”

Fece una pausa e Merk rimase fermo cercando di comprendere le sue parole, insicuro su come rispondere.

“Il rispetto è difficile da guadagnare qui,” continuò. “Siamo, ciascuno di noi, il meglio che Escalon abbia da offrire. Guadagnatelo e un giorno potrai essere accettato nella nostra confraternita. Altrimenti ti verrà chiesto di andartene. Ricorda: quelle porte che si sono aperte per lasciarti entrare possono altrettanto facilmente aprirsi per farti uscire.”

Merk si sentì sprofondare il cuore in petto al pensiero.

“Come posso prestare servizio?” chiese sentendo la forte motivazione che aveva sempre desiderato avere.

Il guerriero rimase lì per molto tempo, quindi si voltò e iniziò a salire verso il piano successivo. Mentre Merk lo guardava andare ebbe la consapevolezza che i quella torre c’erano molte cose proibite, molti segreti che probabilmente mai avrebbe conosciuto.

Si incamminò per seguirlo, ma improvvisamente una mano forte e nerboruta gli diede un colpo al petto fermandolo. Sollevò lo sguardo e vide apparire un altro guerriero, uscito da un’altra porta nascosta mentre il primo continuava a salire e scompariva al piano successivo. Il nuovo guerriero era più alto di Merk e indossava la stessa maglia di ferro dorata.

“Presterai servizio a questo piano,” disse con tono burbero, “con il resto di loro. Io sono il tuo comandante. Vicor.”

Il suo nuovo comandante, un uomo magro con il volto duro come la roccia, sembrava tipo da non doversi contrariare. Vicor si voltò e fece cenno verso una porta aperta nella parete. Merk entrò con cautela, chiedendosi che posto fosse quello man mano che serpeggiava tra stretti corridoi in pietra. Camminavano in silenzio oltrepassando archi incavati nella roccia, quindi il corridoio si aprì in un’ampia stanza con un alto soffitto decorato, pavimento e pareti di pietra, illuminato dalla luce del sole che filtrava attraverso strette finestre rastremate. Merk era stupito di vedere decine di volti che lo fissavano, volti di guerrieri, alcuni magri, altri muscolosi, tutti con occhi duri e immobili, tutti infiammati da un senso di dovere e determinazione. Erano tutti sparpagliati per la stanza, tutti disposti davanti a una finestra. Ciascuno indossava una maglia di ferro dorata e tutti si voltarono a guardare lo straniero che entrava nella loro stanza.

Merk si sentiva imbarazzato e li guardГІ in quel goffo silenzio.

Accanto a lui Vicor si schiarì la voce.

“I fratelli non si fidano di te,” disse a Merk. “Potrebbero non fidarsi mai di te. E tu potresti non fidarti mai di loro. Il rispetto non viene regalato qui e non esistono seconde possibilità.”

“Cosa devo fare?” chiese Merk perplesso.

“La stessa cosa che fanno questi uomini,” rispose Vicor in modo secco. “Guarderai.”

Merk scrutò la stanza di pietra curva e dalla parte opposta, forse a quindici metri da lui, vide una finestra aperta alla quale non si trovava nessun guerriero. Vicor vi si diresse lentamente e Merk lo seguì passando oltre i guerrieri che lo guardavano avanzare e poi tornavano a voltarsi verso le proprie finestre. Era una sensazione strana trovarsi tra quegli uomini e non esserne comunque parte. Non ancora. Merk aveva sempre combattuto da solo e non sapeva cosa significasse appartenere a un gruppo.

Mentre passava e li guardava sentiva che erano tutti, come lui, uomini distrutti, uomini senza un posto dove andare, senza nessun altro scopo nella vita. Uomini che avevano fatto di quella torre di pietra la loro casa. Uomini come lui.

Mentre si avvicinava alla sua stazione, Merk notò che l’ultimo uomo accanto al quale era passato era diverso dagli altri. Aveva l’aspetto di un ragazzo di forse diciotto anni e aveva la pelle più liscia e chiara che Merk avesse mai visto. I capelli erano biondi e lunghi fino alla vita. Era più magro degli altri, con pochi muscoli, e sembrava non essere mai stato in battaglia. Eppure Merk gli lanciò un’occhiata fiera e fu sorpreso di vederlo ricambiare con i medesimi occhi gialli e feroci dei Sorveglianti. Il ragazzo sembrava quasi troppo fragile per trovarsi lì, troppo sensibile, ma allo stesso tempo qualcosa nel suo aspetto lasciava Merk in tensione.

“Non sottovalutare Kyle,” disse Vicor guardando oltre mentre Kyle si girava nuovamente verso la sua finestra. “È il più forte tra noi ed è l’unico verso Sorvegliante qui. Lo hanno mandato qui per proteggerci.”

Merk stentava a crederlo.

Raggiunse la sua postazione e si sedette vicino all’alta finestra guardando verso l’esterno. C’era un ripiano di pietra sul quale sedersi e chinandosi in avanti per guardare attraverso la finestra godette dell’ampia veduta sul paesaggio sottostante. Vide la desolata penisola di Ur, le cime degli alberi della lontana foresta e oltre a quelle l’oceano e il cielo. Si sentiva come se avesse potuto vedere tutta Escalon da lì.

“È tutto?” chiese Merk sorpreso. “Me ne sto solo seduto qui a guardare?”

Vicor sorrise.

“I tuoi doveri non sono neanche iniziati.”

Merk si accigliГІ contrariato.

“Non ho fatto tutta questa strada per starmene seduto in una torre,” disse mentre alcuni degli altri si voltavano a guardarlo. “Come posso essere di difesa da quassù? Non posso stare di pattuglia a terra?”

Vicor fece un sorrisetto.

“Vedi molto di più da quassù di quanto si possa vedere da terra,” rispose.

“E se vedo qualcosa?” chiese Merk.

“Suona la campana,” gli rispose.

Fece un cenno e Merk vide una campana attaccata vicino alla finestra.

“Ci sono stati molti attacchi alla nostra torre nei secoli,” continuò Vicor. “Sono tutti falliti, grazie a noi. Noi siamo i Sorveglianti, l’ultima linea della difesa. Tutta Escalon ha bisogno di noi e ci sono molti modi di difendere la torre.”

Merk lo guardГІ andare e sistemandosi nella sua stazione, nel silenzio, si chiese: per cosa esattamente si era arruolato?




CAPITOLO SEI


Duncan conduceva i suoi uomini galoppando nella notte illuminata dalla luna, attraverso le pianure innevate di Escalon, ora dopo ora all’attacco, da qualche parte all’orizzonte, di Andros. La cavalcata notturna gli riportava alla mente ricordi di battaglie passate, dei vecchi tempi ad Andros, del suo servizio al vecchio re. Si ritrovò perso nei pensieri: ricordi che si fondevano con il presente, che si fondeva con fantasie future, fino a fargli perdere la concezione di cosa fosse reale. Come al solito i pensieri lo portarono anche a sua figlia.

Kyra. Dove sei? si chiedeva.

Duncan pregava che stesse bene, che stesse avanzando nel suo allenamento e che presto si potessero riunire per sempre. Sarebbe stata capace di chiamare di nuovo Theo? Altrimenti non aveva idea se sarebbero stati capaci di vincere quella guerra alla quale lei aveva dato inizio.

L’incessante rumore dei cavalli e delle armature riempiva la notte. Duncan sentiva a malapena il freddo, il suo cuore era caldo per la vittoria, per lo slancio, per l’esercito che cresceva dietro di lui e per l’attesa. Finalmente, dopo tutti quegli anni sentiva che la corrente stava girando nuovamente dalla sua parte. Sapeva che Andros era pesantemente sorvegliata da un esercito stabile e professionale, che erano in pesante sotto numero, che avrebbero trovato la capitale fortificata e che non possedevano la forza di uomini per poter sostenere l’assedio. Sapeva che la battaglia della sua vita lo stava aspettando. Una battaglia che avrebbe determinato il fato di Escalon. Eppure questo era il peso dell’onore.

Duncan sapeva anche che lui e i suoi uomini avevano la causa dalla loro, avevano il desiderio, la finalitГ  e soprattutto la rapiditГ  e forza della sorpresa. I Pandesiani non si sarebbero mai aspettati un attacco alla capitale, non da parte di un popolo soggiogato e certamente non di notte.

Finalmente, mentre i primi segni dell’alba iniziavano a intravedersi, il cielo ancora annebbiato e bluastro, Duncan vide apparire vagamente in lontananza i famigliari contorni della capitale. Era una vista che non si sarebbe mai aspettato di avere davanti di nuovo in vita sua, un panorama che gli fece battere il cuore con maggior forza. I ricordi tornarono a lui, ricordi di tutti gli anni vissuti lì al leale servizio del re e della terra. Ricordò Escalon all’apice della sua gloria, una nazione libera e fiera, una nazione che era apparsa imbattibile.

Eppure il vederla gli riportò anche alla memoria dei ricordi amari: il tradimento del suo popolo da parte del re debole, la resa della capitale, di tutta Escalon. Ricordò se stesso e tutti i grandiosi signori dispersi, costretti ad andarsene in vergogna, tutti esiliati nelle loro fortezze in giro per Escalon. Vedendo i maestosi contorni della città provò un’ondata di desiderio e nostalgia, paura e speranza allo stesso tempo. Quelli erano i contorni che avevano dato forma alla sua vita, i contorni della più magnifica città di Escalon, governata da re per secoli, confini così ampi che era difficile vedere dove finissero. Duncan fece un profondo respiro vedendo i familiari parapetti, le cupole e le guglie, tutti profondamente radicati nel suo cuore. In qualche modo era come tornare a casa, eccetto per il fatto che Duncan non era lo sconfitto e leale comandante di un tempo. Ora era più forte, deciso a non rispondere a nessuno. E aveva un esercito al seguito.

Alle prime luci dell’alba la città era ancora illuminata da torce, ciò che restava della veglia notturna che iniziava a scuotersi di dosso la lunga notte nella bruma mattutina. Man mano che Duncan si avvicinava scorse un’altra cosa che gli infiammò il cuore: le bandiere blu e gialle di Pandesia che sventolavano con fierezza al di sopra dei parapetti di Andros. Gli fecero venire la nausea e gli diedero una nuova ondata di determinazione.

Duncan osservò subito con attenzione i cancelli e il cuore gli si gonfiò vedendo che erano sorvegliati solo da una scarna combriccola. Tirò un sospiro di sollievo. Se i Pandesiani avessero saputo che stavano arrivando, migliaia di soldati sarebbero stati di guardia e Duncan e i suoi uomini non avrebbero avuto alcuna possibilità. Ma questo gli diceva che non sapevano nulla. Le migliaia di soldati pandesiani stazionati lì dovevano essere ancora addormentati. Duncan e i suoi uomini erano fortunatamente avanzati rapidamente, quanto bastava per avere una possibilità.

Duncan sapeva bene che quell’elemento sorpresa sarebbe stato il loro solo vantaggio, l’unico elemento che poteva permettergli una possibilità di prendere l’enorme capitale, con i suoi strati di parapetti, disegnata in modo da poter sostenere un esercito. E poi Duncan conosceva le sue fortificazioni e i suoi punti deboli. Sapeva anche che diverse battaglie erano stato vinte con meno di questo. Duncan scrutò l’ingresso della città e capì dove doveva attaccare per prima cosa se volevano avere una possibilità di vittoria.

“Chiunque controlli quei cancelli controlla la capitale!” gridò Duncan a Kavos e ai suoi altri comandanti. “Non devono chiuderli, non dobbiamo permettere loro di chiuderli, a qualsiasi costo. Se lo fanno saremo sigillati fuori per sempre. Prenderò un piccolo contingente con me e andrò a tutta velocità verso i cancelli. Voi,” disse indicando Kavos, Bramthos e Seavig, “portate il resto dei nostri uomini verso le guarnigioni e proteggeteci i fianchi contro i soldati nemici quando verranno fuori.”

Kavos scosse la testa.

“Attaccare quei cancelli con una piccola forza è una scelta avventata,” gridò. “Verrai circondato e se i starò combattendo contro le guarnigioni non potrò proteggerti le spalle. È un suicidio.”

Duncan sorrise.

“Ed è per questo che ho scelto questo compito per me.”

Duncan spronò il cavallo e si portò davanti agli altri dirigendosi verso i cancelli mentre Anvin, Arthfael e una decina dei suoi migliori comandanti, uomini che conoscevano Andros bene quanto lui, uomini con i quali aveva combattuto per tutta la sua vita, lo seguivano come era certo che avrebbero fatto. Virarono tutti verso i cancelli della città a piena velocità mentre dietro di loro – Duncan li vide con la coda dell’occhio – Kavos, Bramthos, Seavig e il blocco del loro esercito si dirigeva verso le guarnigioni pandesiane.

Il cuore di Duncan gli batteva nel petto sapendo che doveva raggiungere il cancello prima che fosse troppo tardi. Abbassò la testa e spronò il cavallo ad avanzare più velocemente. Galopparono verso il centro della strada, oltre il ponte del re. Gli zoccoli sbattevano contro il legno e Duncan sentì il fremito della battaglia farsi più vicino. Alle prime luci dell’alba Duncan vide i volti stupefatti del primo Pandesiano che li scorse, un soldato giovane che stava di guardia assonnato sul ponte, sbattendo le palpebre e guardando davanti a sé con il terrore dipinto in viso. Duncan accorciò le distanze, lo raggiunse, calò la spada e con una mossa decisa lo colpì prima che potesse alzare lo scudo.

La battaglia aveva avuto inizio.

Anvin, Arthfael e gli altri tirarono le lance abbattendo una mezza dozzina di soldati pandesiani che si erano voltati verso di loro. Continuarono tutti a galoppare senza fermarsi, tutti sapendo che c’erano in ballo le loro vite. Oltrepassarono il ponte allo stesso modo, lanciandosi verso il cancello spalancato di Andros.

Ancora a cento metri buoni di distanza, Duncan sollevò lo sguardo verso i leggendari cancelli di Andros, alti trenta metri, fatti d’oro, spessi tre metri. Capì che, se fossero stati chiusi, la città sarebbe stata inespugnabile. Ci sarebbe stato bisogno di un equipaggiamento d’assedio professionale, cosa che nessuno di loro aveva, e molti mesi, e molti uomini intenti a battersi ai cancelli, cosa che pure gli mancava. Quei cancelli non avevano mai ceduto, nonostante i secoli di assalti. E se non li avesse raggiunti in tempo tutto sarebbe stato perduto.

Duncan osservò la mera dozzina di soldati pandesiani che stavano di guardia, la pattuglia di giorno, gli uomini che dormivano all’alba non aspettandosi un attacco. Spronò il proprio cavallo ad avanzare più rapidamente, sapendo che il tempo era limitato. Doveva raggiungerli prima che lo notassero, aveva bisogno solo di un altro minuto per assicurarsi la sopravvivenza.

Ma subito suonГІ un forte corno e il cuore di Duncan sprofondГІ quando sollevГІ lo sguardo e vide, in cima ai bastioni, una sentinella pandesiana che guardava verso il basso e suonava ripetutamente il corno di avvisaglia. Il suono riecheggiГІ tra le mura della cittГ  e il cuore di Duncan andГІ a fondo capendo che tutto il vantaggio che aveva potuto guadagnare era andato perduto. Aveva sottovalutato il suo nemico.

I soldati pandesiani al cancello scattarono in azione. Corsero in avanti e spinsero le spalle contro i cancelli, sei uomini per parte, premendo con tutta la loro forza per chiuderli. Nello stesso istante quattro altri soldati facevano girare i massicci ingranaggi da entrambe le parti mentre altri quattro ancora tiravano le catene, due per parte. Con un forte cigolio le sbarre iniziarono a chiudersi. Duncan guardГІ disperato, sentendosi come se stessero chiudendo una bara sul suo cuore.

“PIÙ VELOCE!” gridò al suo cavallo.

Presero tutti velocità in un’ultima folle volata. Mentre si avvicinavano alcuni dei suoi uomini tirarono delle lance contro i soldati al cancello nel disperato tentativo di colpirli, ma erano ancora troppo lontani e le lance caddero prima di raggiungere il bersaglio.

Duncan spronava il suo cavallo come mai aveva fatto, galoppando avventatamente davanti agli altri. Quando fu vicino ai cancelli che si stavano chiudendo, improvvisamente sentì qualcosa sfrecciargli vicino. Si rese conto che era un giavellotto e sollevando lo sguardo vide dei soldati in cima ai parapetti che tiravano verso il basso. Udì un grido e voltandosi vide uno dei suoi uomini, un coraggioso guerriero al cui fianco aveva combattuto per anni, che veniva trafitto e cadeva da cavallo, morto.

Duncan spinse con maggior forza, lanciando la cautela al vento e dirigendosi verso le porte che si stavano serrando. Mancavano forse venti metri e poche decine di centimetri restavano perchГ© i cancelli si chiudessero per sempre. Non importava cosa sarebbe successo, anche se ciГІ avrebbe comportato la sua morte: non poteva permettere che accadesse.

In un ultimo slancio suicida Duncan si lanciò da cavallo tuffandosi verso nell’apertura proprio mentre i cancelli si chiudevano. Allungò la spada e la spinse in avanti riuscendo a infilarla nell’ingranaggio un attimo prima che finisse il giro. La spada si piegò, ma non si ruppe. Quella lamina di metallo era l’unica cosa che impediva ora ai cancelli di chiudersi per sempre, l’unica cosa che poteva tenere la capitale aperta, l’unica cosa che poteva evitare che tutta Escalon andasse perduta.

I soldati pandesiani, scioccati, rendendosi conto che i cancelli non si stavano più chiudendo, abbassarono lo sguardo sulla spada di Duncan, stupefatti. Si lanciarono alla carica, tutti in avanti di corsa, e Duncan capì che, anche se questo gli sarebbe costato la vita, non poteva lasciare che le cose accadessero e basta.

Ancora senza fiato per la caduta da cavallo, le costole doloranti, Duncan cercò di rotolare via dalla traiettoria del primo soldato che gli balzava addosso, ma non riuscì a muoversi abbastanza rapidamente. Vide la spada sollevata dietro di sé e si stava preparando al colpo letale quando improvvisamente il soldato gridò e Duncan si voltò confuso udendo un nitrito e vedendo il proprio cavallo da guerra che calciava l’avversario al petto un attimo prima che questi potesse pugnalare Duncan. Il soldato volò indietro con le costole spezzate e atterrò di schiena, privo di conoscenza. Duncan sollevò lo sguardo lanciando un’occhiata di gratitudine al cavallo e rendendosi conto che ancora una volta gli aveva salvato la vita.

Dato il tempo di cui aveva bisogno, Duncan si mise in piedi, sguainò la spada che gli restava e si preparò mentre il gruppo di soldati calava su di lui. Il primo soldato lo colpì con la spada e Duncan parò il colpo sopra la propria testa, ruotò e pugnalò il soldato più vicino al ventre prima che questi potesse raggiungerlo. Quindi saltò sul corpo dell’avversario caduto e con entrambi i piedi diede un calcio nel petto al successivo mandandolo a terra. Si abbassò mentre un altro soldato cercava di colpirlo, poi ruotò e lo prese alla schiena.

Duncan, distratto dai suoi aggressori, si voltò e percepì del movimento dietro di sé. Vide quindi un Pandesiano che afferrava la spada incastrata tra i cancelli e la tirava per l’elsa. Rendendosi conto che non c’era tempo Duncan si girò, prese la mira e lanciò la spada che aveva in mano. L’arma roteò in aria e si conficcò nella gola dell’uomo un attimo prima che riuscisse ad estrarre la lama. Aveva salvato il cancello ma era rimasto indifeso.

Duncan corse verso il cancello sperando di allargare l’apertura, ma subito un soldato lo bloccò da dietro e lo spinse a terra. Con la schiena scoperta Duncan sapeva di essere in pericolo. C’era poco che potesse fare mentre il Pandesiano dietro di lui sollevava una lancia in aria per colpirlo.

Un grido riempì l’aria e Duncan vide con la coda dell’occhio Anvin che correva in avanti facendo roteare la sua mazza e colpendo il soldato al polso facendogli cadere la lancia di mano un attimo prima che questa trafiggesse Duncan. Anvin saltò giù da cavallo e bloccò l’uomo a terra. Allo stesso tempo Arthfael e gli altri sopraggiunsero attaccando l’altro gruppo di soldati che si stavano dirigendo verso Duncan.

Liberato Duncan prese visione della situazione e vide che i soldati che sorvegliavano il cancello erano morti e il cancello stesso era tenuto aperto di poco dalla spada. Con la coda dell’occhio vide centinaia di soldati pandesiani che iniziavano ad emergere dalle caserme all’alba e a correre fuori per combattere contro Kavos, Seavig e i loro uomini. Capì che il tempo era limitato. Anche con Kavos e i suoi uomini che li tenevano occupati, parecchi sarebbero scivolati oltre e si sarebbero diretti verso il cancello. Se Duncan non avesse preso presto il controllo di quel cancello, tutti i suoi uomini sarebbero stati finiti.

Duncan schivò un’altra lancia che gli era stata tirata da sopra i parapetti. Corse in avanti e afferrò un arco e frecce da un soldato caduto, si raddrizzò, prese la mira e tirò al Pandesiano che si trovava in cima e che si stava chinando in avanti con una lancia. Il ragazzo gridò e cadde, trafitto dalla freccia che chiaramente non si aspettava. Precipitò a terra e atterrò accanto a Duncan con un tonfo. Duncan si fece da parte e vide che quel ragazzo era quello che aveva suonato il corno.

“I CANCELLI!” gridò Duncan ai suoi uomini che stavano finendo di uccidere i soldati rimasti.

I suoi uomini si raggrupparono, smontarono da cavallo e corsero accanto a lui aiutandolo a tirare i massicci cancelli per aprirli di più. Tirarono con tutte le loro forze, ma riuscirono appena a spostarli un poco. Altri uomini accorsero e mentre tutti insieme tiravano, lentamente uno dei cancelli iniziò a muoversi. Un centimetro alla volta si aprì e presto ci fu spazio abbastanza perché Duncan potesse mettere il proprio piede nella fessura.

Duncan strinse poi la spalla all’interno dell’apertura e spinse con tutta la sua forza, sbuffando e con le braccia tremanti. Il sudore gli gocciolava dal viso nonostante il freddo della mattina e guardando fuori vide la marea di soldati che sciamavano fuori dalle caserme. La maggior parte si scontravano con Kavos, Bramthos e i loro uomini, ma un buon numero gli passavano attorno e si dirigevano verso di lui. Un improvviso grido risuonò nell’alba e Duncan vide uno dei suoi uomini accanto a lui, un buon comandante, un uomo leale, cadere a terra. Vide una lancia nella sua schiena e sollevando lo sguardo vide che i Pandesiani erano a portata di tiro.

Altri Pandesiani sollevarono le lance e le scagliarono verso di loro. Duncan si preparò, rendendosi conto che non ce l’avrebbero fatta ad attraversare il cancello in tempo. Ma improvvisamente, con sua grande sorpresa, i soldati inciamparono e caddero a faccia in giù. Osservandoli vide frecce e lance nelle loro schiene e provò un’ondata di gratitudine nel vedere Bramthos e Seavig che conducevano un centinaio di uomini distaccandosi da Kavos che stava combattendo contro la guarnigione, e voltandogli la schiena per aiutare lui.

Duncan raddoppiò gli sforzi, spingendo con tutte le sue forze mentre Anvin e Arthfael si stringevano vicino a lui, sapendo che doveva allargare l’apertura a sufficienza per permettere ai suoi uomini di passarci attraverso. Alla fine, con l’aiuto di altri dei suoi uomini, piantarono i piedi nella neve e iniziarono a camminare. Duncan fece un passo alla volta fino a che, con un ultimo sbuffo, i cancelli furono aperti a metà.

Si levò un grido di vittoria da dietro di lui e Duncan si voltò vedendo Bramthos e Seavig che conducevano un centinaio di uomini a cavallo, tutti all’attacco verso il cancello aperto. Duncan recuperò la sua spada, la sollevò in alto e si lanciò alla guida degli uomini attraverso i cancelli aperti mettendo piede nella capitale e lanciando la cautela al vento.

Con lance e frecce che ancora piovevano su di loro, Duncan capì all’istante che dovevano conquistare il controllo dei parapetti, che erano anche dotati di catapulte che avrebbero potuto causare danni illimitati ai suoi uomini di sotto. Sollevò lo sguardo verso i bastioni, considerando il modo migliore per salire, quando improvvisamente sentì un altro grido e guardando avanti vide una consistente forza di soldati pandesiani che si raggruppavano dall’interno della città e correvano verso di loro.

Duncan li guardГІ coraggiosamente.

“UOMINI DI ESCALON, CHI HA ABITATO LA NOSTRA PREZIOSA CAPITALE!?” gridò.

I suoi uomini gridarono tutti insieme e attaccarono mentre lui rimontava in sella e li conduceva a dare il benservito ai soldati nemici.

Seguì un forte schianto di armi mentre soldati e cavalli si scontravano tra loro e Duncan e i suoi cento uomini attaccavano i cento soldati pandesiani. Duncan sentiva che i Pandesiani erano stati presi alla sprovvista all’alba, avevano sentito il sangue nell’aria quando avevano scorto Duncan e i suoi pochi uomini, ma non si erano aspettati un numero così grosso di rinforzi alle sue spalle. Poteva vedere i loro occhi sgranati alla vista di Bramthos, Seavig e tutti i loro uomini che si riversavano all’interno dei cancelli della città.

Duncan sollevò la spada e parò un colpo colpendo un soldato al ventre. Poi ruotò e ne colpì un altro alla testa con lo scudo, quindi afferrò la lancia dalla sua bardatura e la scagliò contro un altro ancora. Si fece strada temerariamente attraverso la folla abbattendo uomini a destra e a manca, mentre tutt’attorno a lui Anvin, Arthfael, Bramthos, Seavig e i loro uomini facevano lo stesso. Era una bella sensazione trovarsi di nuovo all’interno della capitale, quelle strade che una volta conosceva così bene. E si sentiva ancora meglio mentre si sbarazzava dei Pandesiani.

Presto decine di Pandesiani si ammassarono ai loro piedi, tutti incapaci di fermare la marea di Duncan e dei suoi uomini, come un’ondata che si era abbattuta sulla capitale all’alba. Duncan e i suoi avevano molto in ballo, erano andati troppo oltre e quegli uomini di guardia alle strade erano lontani da casa, demoralizzati, con una causa debole per cui combattere, i loro comandanti lontani e loro impreparati. Dopotutto non avevano mai incontrato in battaglia i veri guerrieri di Escalon. Mentre la marea girava, i soldati pandesiani rimasti si voltarono per scappare, arrendendosi, ma Duncan e i suoi uomini allungarono il passo inseguendoli e abbattendoli con frecce e lance fino a che nessuno fu rimasto.

Con la via verso la capitale liberata e con frecce e lance che ancora piovevano dall’alto, Duncan si girò e si concentrò nuovamente sui parapetti, mentre un altro dei suoi uomini cadeva da cavallo con una freccia nella spalla. Avevano bisogno dei parapetti, del terreno alto, non solo per fermare le frecce ma anche per aiutare Kavos. Dopotutto Kavos era ancora in minoranza numerica là fuori, dietro alle mura, e avrebbe avuto bisogno dell’aiuto di Duncan ai parapetti, con le catapulte, se voleva avere una qualche possibilità di sopravvivere.

“IN ALTO!” gridò Duncan.

Gli uomini di Duncan esultarono e seguirono il suo segnale, dividendosi: metà di loro lo seguirono e l’altra metà seguì Bramthos e Seavig dalla parte opposta del cortile per salire dall’altra parte. Duncan si diresse verso i gradini di pietra che si trovavano lungo le mura e che conducevano ai parapetti. Di guardia c’erano decine di soldati che sollevarono lo sguardo con occhi sgranati verso l’assalto che sopraggiungeva. Duncan piombò su di loro e lui e i suoi uomini tirarono le lance uccidendoli prima che potessero sollevare gli scudi. Non era rimasto tempo da perdere.

Raggiunsero i gradini e Duncan smontò da cavallo guidando l’attacco in fila indiana salendo la scala. Sollevò lo sguardo di soprassalto vedendo i soldati pandesiani che correvano loro incontro con le lance levate, pronti a tirarle. Sapeva che avevano il vantaggio correndo in giù e non volendo perdere tempo in un combattimento corpo a corpo, pensò rapidamente mentre le lance iniziavano a piombare contro di loro.

“FRECCE!” ordinò agli uomini dietro di lui.

Duncan si abbassò colpendo il terreno e un attimo dopo sentì le frecce fischiare sopra la sua testa mentre i suoi uomini seguivano il suo comando facendosi avanti e tirando. Duncan sollevò lo sguardo e vide con soddisfazione che i soldati che stavano correndo loro incontro lungo la stretta scala di pietra inciampavano e cadevano di lato, gridando mentre precipitavano e atterravano sul cortile di pietra in basso.

Duncan continuò a risalire i gradini, bloccando un soldato mentre altri attaccavano e lo spingevano verso il bordo. Si voltò e ne colpì un altro con lo scudo facendo volare anche lui, quindi si sollevò con la spada e ne trafisse un altro attraverso il mento.

Ma questo lo rese vulnerabile sulla stretta scala e i Pandesiani saltarono su di lui da dietro e lo trascinarono al bordo. Duncan si tenne stretto con tutto se stesso stringendo la pietra con le mani, incapace di tenere la prese e sul punto di cadere. Improvvisamente un uomo sopra di lui si afflosciГІ e gli scivolГІ dalla spalla, oltre il bordo, morto. Duncan vide una spada nella sua schiena e si voltГІ vedendo Arthfael che lo aiutava a rimettersi in piedi.

Duncan continuò a correre, grato di avere i suoi uomini alle spalle, e salì un piano dopo l’altro evitando lance e frecce, bloccandone alcune con lo scudo, fino a che raggiunse i parapetti. In cima si trovava un ampio ripiano di pietra, largo forse dieci metri, che copriva la sommità dei cancelli. Era gremito di soldati pandesiani che stavano spalla contro spalla, tutti armati di frecce, lance, giavellotti, tutti concentrati a lanciare armi contro gli uomini di Kavos che stavano di sotto. Quando Duncan arrivò con i suoi uomini, questi smisero di attaccare Kavos e si voltarono invece per combattere contro di lui. Nello stesso momento Seavig e l’altro contingente di uomini finiva la sua scalata dall’altra parte del cortile e attaccava i soldati dalla parte opposta. Lo stavano stringendo su due fronti senza lasciare loro via di fuga.

Il combattimento era intenso, corpo a corpo, mentre gli uomini da tutte le parti combattevano per guadagnare ogni prezioso centimetro. Duncan sollevò lo scudo e la spada e mentre il clangore riempiva l’aria e il combattimento si faceva sanguinario, corpo a corpo, lui passava abbattendo un uomo alla volta. Duncan schivava, evitava i colpi e abbassava la spalla colpendo con la spalla e spingendo più di un uomo oltre il bordo. Gli avversari gridavano contro la loro morte giù in basso: a volte le migliori armi di un uomo erano le mani.

GridГІ di dolore ricevendo un colpo allo stomaco, ma fortunatamente si girГІ e venne appena graffiato. Mentre il soldato si avvicinava per infliggere un colpo mortale, Duncan, senza spazio dove andare per muoversi, gli diede un colpo alla testa facendogli perdere la spada. Poi gli diede una ginocchiata, lo afferrГІ e lo gettГІ oltre il parapetto.

Duncan continuò a combattere: ogni passo in avanti era una difficile conquista e mentre il sole saliva il sudore gli bruciava gli occhi. Gli uomini sbuffavano e gridavano di dolore da ogni parte mentre le spalle di Duncan si facevano sempre più stanche nell’uccidere in continuazione.

Mentre ansimava ormai senza fiato, ricoperto del sangue dei suoi nemici, Duncan fece l’ultimo passo in avanti e alzò la spada. Fu scioccato di vedere Bramthos e Seavig e i loro uomini di fronte a sé. Si voltò e vide tutti i corpi morti rendendosi conto, stupefatto, che ce l’avevano fatta: avevano sbaragliato i parapetti.

Si levГІ un grido di vittoria mentre tutti i loro uomini si incontravano nel mezzo.

Tuttavia Duncan sapeva che la situazione era ancora urgente.

“FRECCE!” gridò.

Immediatamente abbassГІ lo guardo verso gli uomini di Kavos e vide la grande battaglia che si stava scatenando di sotto, mentre migliaia di soldati pandesiani uscivano di corsa dal forte per scontrarsi con loro. Kavos stava lentamente per essere circondato da ogni parte.

Gli uomini di Duncan sollevarono gli archi dei soldati abbattuti, presero la mira al di là della mura e tirarono verso il basso contro i Pandesiani. I Pandesiani non si sarebbero mai aspettati di essere colpiti dall’alto e caddero a decine, crollando al suolo mentre gli uomini di Kavos venivano risparmiati dai colpi letali. I Pandesiani iniziarono a cadere tutt’attorno a Kavos e presto si scatenò il panico quando si resero conto che Duncan aveva il controllo del terreno alto. Stretti tra Duncan e Kavos, non avevano alcun luogo dove fuggire.

Duncan non avrebbe concesso loro del tempo per riorganizzarsi.

“LANCE!” ordinò.

Duncan ne afferrò lui stesso una e la tirò in basso, poi un’altra e un’altra ancora razziando l’enorme riserva di armi lasciata in cima ai parapetti, designata ad abbattere gli invasori di Andros.

Mentre i Pandesiani iniziavano a cedere, Duncan capì che dovevano fare qualcosa per finirli.

“CATAPULTE!” gridò.

I suoi uomini accorsero alle catapulte in cima ai contrafforti e tirarono le grosse funi facendo ruotare gli ingranaggi e mettendosi così in posizione. Misero i massi all’interno e attesero il suo comando. Duncan camminava su e giù per le linee sistemando le posizione così che i massi non mancassero gli uomini di Kavos e andassero invece a segno.

“FUOCO!” gridò.

Decine di massi volarono in aria e Duncan guardГІ con soddisfazione mentre precipitavano e andavano a colpivano il forte di pietra uccidendo decine di Pandesiani con un colpo man mano che si riversavano come formiche per scontrarsi con gli uomini di Kavos. I suoni riecheggiarono nel cortile stupendo i Pandesiani e aumentando il panico. Mentre nuvole di polvere e macerie si levavano, si voltarono piГ№ volte insicuri se combattere o meno e in che modo farlo.

Kavos, da guerriero veterano che era, approfittò della loro esitazione. Raccolse i suoi uomini e si lanciò all’attacco con uno nuovo slancio e mentre i Pandesiani esitavano si fece strada tra i loro ranghi.

I corpi cadevano a destra e a sinistra, il campo pandesiano in totale confusione, e presto si soldati nemici si voltarono e fuggirono in ogni direzione. Kavos li seguì tutti e li abbatté uno per uno. Fu una carneficina.

Quando il sole fu alto in cielo tutti i Pandesiani giacevano a terra, senza vita.

Mentre calava il silenzio Duncan guardò davanti a sé provando un crescente senso di vittoria, rendendosi conto che ce l’avevano fatta. Avevano conquistato la capitale.

Mentre i suoi uomini gridavano attorno a lui, stringendogli le spalle, esultando e abbracciandosi, Duncan si asciugГІ il sudore dagli occhi, ancora con il fiato grosso, e iniziГІ ad esserne certo: Andros era libera.

La capitale era loro.




CAPITOLO SETTE


Alec allungò il collo e guardò in alto, stupito, mentre oltrepassava gli altissimi cancelli ad arco della città di Ur, spinto da folle di persone da entrambe le parti. Vi passò attraverso, Marco al suo fianco, i volti di entrambi pieni di terra per l’interminabile camminata attraverso la Pianura di Spine. Osservò l’altissimo arco di marmo che sembrava raggiungere i trenta metri. Guardò le antiche mura in granito del tempio da entrambe le parti e fu stupito di trovarsi a passare nel mezzo di un tempio che faceva anche da ingresso alla città. Alec vide numerosi devoti inginocchiati di fronte a quelle mura, uno strano miscuglio con il traffico dei commercianti che pure si trovavano lì. Questo lo fece riflettere. Una volta aveva pregato gli dei di Escalon, ma ora non pregava più nessuno. Quale dio vivente, si chiedeva, poteva aver permesso che la sua famiglia morisse? L’unico dio che poteva servire ora era il dio della vendetta, ed era una divinità che era determinato a servire con tutto il cuore.

Alec, sopraffatto da tutti gli stimoli che aveva attorno, vide da subito che quella città era diversa da qualsiasi posto avesse visto, diversa dal piccolo villaggio dove era cresciuto. Per la prima volta dalla morte della sua famiglia si sentiva risospinto in vita. Quel posto era così sorprendente, così vivo, all’interno dei cancelli c’erano altre persone come lui, amici che la pensavano come Marco pronti alla vendetta contro Pandesia. Sollevò lo sguardo osservando tutto con meraviglia, tutta la gente di diversi stili, maniere e razze, tutti che si affrettavano in ogni direzione. Era una vera città cosmopolita.

“Tieni la testa bassa,” sibilò Marco quando ebbero passato il cancello orientale emergendo tra la folla.

Marco lo spinse.

“Lì.” Marco gli indicò in gruppo di soldati pandesiani. “Stanno controllando le facce. Sono sicuro che cercano le nostre.”

Di riflesso Alec strinse il pugno attorno al pugnale e Marco gli mise con fermezza la mano sul polso.

“Non qui, amico mio,” lo mise in guardia. “Questo non è un paesino di campagna ma una città di guerra. Uccidi due Pandesiani al cancello e qualsiasi esercito ti sarà addosso.”

Marco lo guardГІ con intensitГ .

“Preferisci ucciderne due?” insistette. “O duemila?”

Alec, comprendendo la saggezza delle parole dell’amico, allentò la presa attorno al pugnale e raccolse tutta la sua volontà per sedare il suo desiderio di vendetta.

“Ci saranno molte possibilità, amico mio,” disse Marco mentre si affrettavano tra la folla con le teste abbassate. “I miei amici sono qui e la resistenza è forte.”

Emersero insieme alla massa passando attraverso il cancello e Alec abbassГІ gli occhi in modo che i Pandesiani non potessero vederli.

“Ehi, voi!” gridò un Pandesiano. Alec sentì il cuore che gli batteva forte e tenne la testa bassa.

Corsero verso di loro e lui strinse il pugno attorno al pugnale, preparandosi. Ma si fermarono invece da un ragazzo accanto a lui prendendolo per le spalle e controllandogli il volto. Alec fece un respiro profondo, sollevato che non fosse toccato a lui, e passГІ velocemente oltre il cancello senza essere visto.

Alla fine entrarono nella piazza cittadina e tirandosi indietro il cappuccio Alec guardò all’interno della città restando stupito da ciò che vide. Lì, davanti a lui, si elevavano tutte le meraviglie architettoniche e il traffico di Ur. La città sembrava viva, pulsante, brillante al sole, come se effettivamente emanasse luce. Inizialmente Alec non capiva perché, ma poi si rese conto: l’acqua. Ovunque c’era acqua, la città era attraversata da canali, acqua blu che luccicava sotto il sole mattutino facendo apparire la città come se fosse un tutt’uno con il mare. Nei canali si trovava ogni genere di imbarcazione – barche a remi, canoe, vele – addirittura alcune lucide navi da guerra nere con le bandiere gialle e blu di Pandesia. I canali erano costeggiati da strade di ciottoli, pietre antiche e levigate sulle quali camminavano migliaia di persone che indossavano gli indumenti più disparati. Alec vide cavalieri, soldati, civili, commercianti, paesani, mendicanti, giocolieri, mercanti, contadini e molte altre persone, tutti mescolati insieme. Molti indossavano colori che Marco non aveva mai visto, chiaramente visitatori provenienti dall’altra parte del mare, visitatori del mondo che erano di passaggio a Ur, il porto internazionale di Escalon. In effetti colori e insegne straniere erano visibili su diverse barche che affollavano il canale, come se tutto il mondo si fosse riunito in un unico posto.

“Le cime che circondano Escalon sono così alte che hanno reso la nostra terra inespugnabile,” spiegò Marco mentre camminavano. “Ur possiede l’unica spiaggia, l’unico porto per grosse imbarcazioni che desiderino approdare. A Escalon ci sono altri porti, ma nessuno di così facile accesso. Quindi, quando desiderano farci visita, vengono tutti qui,” aggiunse con un gesto della mano, guardando tutta la gente e tutte le navi.

“È una cosa che ha allo stesso tempo aspetti positivi e negativi,” continuò. “Ci porta commercio e affari da ogni angolo del regno.”

“E l’aspetto negativo?” chiese Alec mentre si stringevano tra la folla e Marco si fermava a comprare un pezzo di carne.

“Rende Ur soggetta agli attacchi via mare,” rispose. “È un punto naturale per le invasioni.”

Alec osservava i contorni della città con ammirazione, considerando tutti i campanili, tutta l’interminabile schiera di altissimi edifici. Non aveva mai visto niente del genere.

“E le torri?” chiese sollevando lo sguardo verso una serie di alte torri contornate da parapetti, che si levavano al di sopra della città davanti al mare.

“Sono state costruite per sorvegliare il mare,” rispose Marco. “Contro le invasioni. Anche se con la resa del re debole sono servite a ben poco.”

Alec era pieno di domande.

“E se non si fosse arreso?” chiese. “Ur avrebbe potuto sostenere un attacco dal mare?”

Marco scrollГІ le spalle.

“Non sono un comandante,” disse. “Ma so che dei modi ci sono. Siamo sicuramente in grado di difenderci da pirati e razziatori. Una flotta è un’altra storia. Ma nei suoi mille anni di storia Ur non è mai caduta, e questo ti dice qualcosa.”

Lontane campane suonarono in aria mentre continuavano a camminare, mescolandosi con il verso dei gabbiani in alto che volavano in cerchio richiamando l’attenzione. Mentre spingevano passando tra la folla, Alec si trovò con lo stomaco che brontolava e sentì genere di odore di cibo nell’aria. Sgranò gli occhi passando tra file di bancarelle, tutte piene zeppe di merce. Vide oggetti e prelibatezze esotiche che mai aveva visto e si meravigliò della vita cosmopolita di quella città. Tutto era più veloce lì, tutti erano di fretta, la gente passava così rapidamente da fare fatica a osservare tutto mentre gli passavano accanto. Questo gli fece capire da che piccolo paesino era arrivato.

Alec fissò in venditore che offriva i più grossi frutti rossi che mai avesse visto. Mise la mano in tasca per comprarne uno quando si sentì spingere con forza alla spalla. Di lato si trovò un volto accigliato che mai aveva visto e che lo guardava imprecando in una lingua che non capiva. L’uomo poi lo spinse facendolo volare di schiena addosso a una bancarella e poi a terra.

“Non ce n’è bisogno,” disse Marco facendosi avanti e tendendo una mano per fermare l’uomo.

Ma Alec, normalmente passivo, provò una nuova sensazione di rabbia. Era un sentimento che non conosceva, una furia che gli vorticava dentro fin dalla morte della sua famiglia, una rabbia che aveva bisogno di essere sfogata. Non riuscì a controllarsi. Balzò in piedi, si lanciò in avanti e con una forza che non sapeva di avere diede all’uomo un pugno in faccia facendolo cadere addosso a un’altra bancarella.

Alec rimase poi fermo, stupito di aver atterrato un uomo così grande e grosso. Marco gli stava accanto, pure lui con gli occhi sgranati.

Subito scoppiò il caos nella piazza del mercato: i rozzi amici dell’uomo accorsero e anche un gruppo di soldati pandesiani arrivò dall’altra parte della piazza. Marco sembrava colto dal panico e Alec capì che si trovavano in una posizione precaria.

“Da questa parte!” disse con urgenza Marco afferrando Alec e tirandolo con forza.

Mentre lo zotico si rimetteva in piedi e i Pandesiani si avvicinavano, Alec e Marco corsero tra le strade. Alec seguiva l’amico che lo guidava attraverso la città che conosceva benissimo, prendendo delle scorciatoie, serpeggiando tra le bancarelle e virando di colpo in stradine secondarie. Alec riusciva a stento a stargli dietro in tutto quel fitto zigzagare. Ma quando si voltò per guardarsi alle spalle vide un grosso gruppo che si avvicinava, quindi capì che avevano per le mani una battaglia che mai avrebbero potuto vincere.

“Qui!” gridò Marco.

Alec guardò Marco saltare oltre il bordo del canale e senza pensarci lo seguì aspettandosi di atterrare in acqua.

Fu invece sorpreso di non sentire alcun tuffo e di trovarsi ad atterrare su una piccola cengia di pietra sul fondo, un ripiano che prima non aveva visto. Marco, respirando affannosamente, bussò quattro volte contro un’anonima porta di legno costruita nella pietra, accanto alla strada. Un attimo dopo la porta si aprì e Alec e Marco furono tirati nell’oscurità mentre la porta subito si richiudeva dietro di loro. Prima che si serrasse del tutto Alec vide un uomo che correva verso il bordo del canale, con sguardo interrogativo, incapace di vedere la porta di sotto che si chiudeva.

Alec si trovò sottoterra, in un canale buio, e corse, frastornato, con l’acqua che gli bagnava le caviglie. Svoltarono e girarono e presto furono di nuovo alla luce del sole.

Alec vide che si trovavano in una grande stanza di roccia al di sotto delle strade cittadine. La luce del sole filtrava dalle grate in alto e lui guardГІ con stupore vedendosi circondato da numerosi ragazzi della loro etГ , tutti con i volti coperti di terra, ma bonariamente sorridenti. Tutti si fermarono, respirando affannosamente, e Marco sorrise salutando i suoi amici.

“Marco,” dissero abbracciandolo.

“Jun, Saro, Bagi,” rispose Marco.

Si fecero tutti avanti e lui li abbracciò uno per uno, sorridendo. Erano chiaramente dei fratelli per lui. Avevano tutti suppergiù la stessa età, alti come Marco, con le spalle larghe e i volti duri, l’aspetto di ragazzi che erano riusciti a sopravvivere per tutta la vita nelle strade. Erano ragazzi che chiaramente avevano sempre dovuto arrangiarsi.

Marco tirГІ avanti Alec.

“Questo,” annunciò, “è Alec. È uno di noi adesso.”

Uno di noi. Ad Alec piacque il suono di quelle parole. Era una bella sensazione sentirsi parte di qualcosa.

Tutti gli strinsero la mano e uno di loro, il piГ№ alto, Bagi, scosse la testa e sorrise.

“Quindi sei stato tu a far partire tutta questa agitazione?” chiese con un sorriso.

Alec sorrise docilmente.

“Quel tipo mi ha spinto,” disse.

Gli altri risero.

“Una ragione valida come qualsiasi altra per rischiare le nostre vite,” rispose Saro, sincero.

“Sei in una città adesso, ragazzo di campagna,” disse Jun con franchezza, senza sorridere, diversamente dagli altri. “Avresti potuto farci uccidere tutti. È stata una cosa stupida. Qui alla gente non gliene frega niente: ti spingono e fanno molto di peggio. Tieni la testa bassa e guarda dove vai. Se qualcuno ti viene addosso, girati e allontanati o potresti trovarti un pugnale conficcato nella schiena. Sei stato fortunato questa volta. Questa è Ur. Non si sa mai chi può attraversarti la strada e la gente qui ti pugnalerebbe per un qualsiasi motivo. Alcuni anche senza ragione.”

I nuovi compagni improvvisamente si voltarono e si allontanarono addentrandosi più a fondo nei cunicoli cavernosi. Alec corse per raggiungerli mentre Marco si univa a loro. Sembravano conoscere tutti quel posto a memoria, anche nella penombra, girando e svoltando con facilità tra le stanze sotterranee, con l’acqua che gocciolava e riecheggiava tutt’attorno a loro. Evidentemente erano tutti cresciuti lì. Questo faceva sentire Alec fuori posto: lui era cresciuto a Soli e quel posto che era così mondano, quei ragazzi di strada così furbi e svegli. Avevano tutti sicuramente sofferto prove e difficoltà che Alec mai avrebbe potuto immaginare. Erano una combriccola un po’ rude, avevano ovviamente passato più di un alterco e soprattutto avevano l’aspetto di essere dei sopravvissuti.

Dopo aver svoltato una serie di vicoli, i ragazzi salirono una ripida scala di metallo e presto Alec si trovò di nuovo in superficie, tra le strade, in una diversa parte di Ur, emergendo nel mezzo di un’altra frenetica folla. Alec si voltò e si guardò in giro vedendo una grande piazza cittadina con una fontana di rame al centro. Non la riconobbe: faceva fatica ad orientarsi fra tutti quei quartieri in quella città così estesa.

I ragazzi si fermarono sotto a un edificio basso, tozzo e anonimo, fatto di pietra, simile agli altri con i suo tetto piatto ricoperto di tegole rosse. Bagi bussò due volte e un attimo dopo l’anonima porta arrugginita si aprì. Tutti entrarono rapidamente, poi la porta si richiuse di colpo dietro di loro.

Alec si trovò in una stanza buia, illuminata solo dalla luce del sole che filtrava dalle finestre in alto. Si voltò e riconobbe il rumore dei martelli che colpivano le incudini, quindi scrutò la stanza con interesse. Udì il sibilo di una forgia, vide la familiare nuvola di vapore e immediatamente si sentì a casa. Non aveva bisogno di guardarsi ancora in giro per capire che si trovava in una forgia piena di fabbri che lavoravano alla fabbricazione di armi. Il cuore gli si gonfiò di eccitazione.

Un uomo sulla quarantina, alto e magro con la barba corta e il volto pieno di fuliggine, si asciugГІ le mani sul suo grembiule e si avvicinГІ. Fece un cenno agli amici di Marco guardandoli con rispetto e loro risposero annuendo.

“Fervil,” disse Marco.

Fervil si voltГІ e vedendo Marco gli si illuminГІ il viso. Si avvicinГІ e lo abbracciГІ.

“Pensavo fossi andato a Le Fiamme,” disse.

Marco gli sorrise.

“Non più,” rispose.

“Voi ragazzi siete pronti a lavorare?” chiese. Quindi guardò Alec. “E qui chi abbiamo?”

“Un mio amico,” rispose Marco. “Alec. Un bravo fabbro, e felice di unirsi alla nostra causa.”

“Davvero?” chiese Fervil scetticamente.

GuardГІ Alec con occhi duri, squadrandolo dalla testa ai piedi come se fosse inutile.

“Ne dubito,” rispose, “dal suo aspetto. Mi sembra tremendamente giovane. Ma possiamo metterlo a lavorare raccogliendo i nostri scarti. Prendi questo,” disse porgendogli un secchio pieno di pezzetti di metallo. “Ti farò sapere se mi serve altro da te.”

Alec arrossì indignato. Non sapeva perché non piacesse a quell’uomo, forse si sentiva minacciato. Sentì che nella forgia calava il silenzio, sentì tutti gli altri ragazzi che lo guardavano. In molti modi questo gli fece ricordare suo padre, e questo non poté che accrescere la sua rabbia.

Si sentì ribollire dentro non volendo più tollerare, dopo la morte della sua famiglia, tutto ciò che aveva sopportato prima.

Mentre gli altri si voltavano per allontanarsi, Alec lasciГІ cadere il secchio di rifiuti che sbattГ© sonoramente sul pavimento di pietra. Gli altri si girarono stupiti e di nuovo calГІ il silenzio mentre tutti si fermavano per osservare il confronto.

“Vattene dalla mia bottega!” ringhiò Fervil.

Alec lo ignorГІ. Gli passГІ invece oltre portandosi al tavolo piГ№ vicino, raccolse una spada lunga, la sollevГІ e la esaminГІ.

“È un tuo lavoro?” chiese.

“E tu chi sei per permetterti di farmi domande?” chiese Fervil.

“Si o no?” insistette Marco portandosi dalla parte dell’amico.

“Sì, è mia,” rispose Fervil sulla difensiva.

Alec annuì.

“È una schifezza,” concluse.

Nella stanza si udì un sussulto.

Fervil si alzГІ in tutta la sua altezza guardandolo con espressione accigliata e livida.

“Voi ragazzi ora potete andare,” ringhiò. “Tutti. Ho abbastanza fabbri qui.”

Alec rimase al suo posto.

“E nessuno vale niente,” ribatté.

Fervil arrossì e si fece avanti con fare minaccioso. Marco mise una mano tra loro.

“Ce ne andiamo,” disse.

Alec improvvisamente abbassГІ la punta della spada a terra, sollevГІ un piede e con un colpo la spezzГІ a metГ .

Le schegge volarono ovunque lasciando tutti di stucco.

“Una buona spada dovrebbe fare così?” chiese Alec con un sorriso ironico.

Fervil gridò e si lanciò addosso ad Alec, ma quando gli fu vicino lui sollevò l’estremità appuntita della lama spezzata e lui si fermò di scatto.

Gli altri ragazzi, vedendo il confronto, sguainarono le spade e accorsero per difendere Fervil, mentre Marco e i suoi amici si mettevano dalla parte di Alec. Tutti i ragazzi erano ora lì in posizione, uno di fronte all’altro in un teso momento di stallo.

“Cosa stai facendo?” chiese Marco ad Alec. “Condividiamo tutti la stessa causa. Questa è una follia.”

“È proprio per questo che non posso lasciarli combattere con della robaccia,” rispose Alec.

Alec lanciГІ a terra la spada rotta e lentamente sguainГІ una spada lunga dalla sua cintura.

“Questa l’ho fatta io,” disse a voce alta. “L’ho plasmata con le mie mani nella forgia di mio padre. Un lavoro la cui fattura non vedrai mai in giro.”

Alec girò improvvisamente la spada, afferrò la lama e la porse dalla parte dell’elsa verso Fervil.

In un teso silenzio Fervil abbassò lo sguardo, chiaramente non aspettandosi un gesto del genere. Afferrò l’elsa lasciando Alec indifeso e per in momento sembrò stesse pensando a colpire Alec con essa.

Ma Alec rimase fermo, fiero e privo di paura.

Lentamente il volto di Fervil si ammorbidì, chiaramente rendendosi conto che Alec si era reso indifeso e guardandolo ora con maggiore rispetto. Abbassò lo sguardo ed esaminò la spada. La soppesò tra le mani e la sollevò alla luce. Alla fine, dopo un lungo tempo, guardò nuovamente Alec, impressionato.

“Lavoro tuo?” chiese con voce incredula.

Alec annuì.

“E posso forgiarne molte altre,” rispose.

Si avvicinГІ e guardГІ Fervil con sguardo intenso.

“Voglio uccidere i Pandesiani,” aggiunse. “E voglio farlo con armi vere.”

Nella stanza c’era ora un denso silenzio. Alla fine Fervil scosse lentamente la testa e sorrise.

AbbassГІ la spada e allungГІ una mano, che Alec afferrГІ. Lentamente tutti i ragazzi abbassarono le loro armi.

“Suppongo,” disse Fervil con un largo sorriso, “che possiamo trovarti un posticino.”




CAPITOLO OTTO


Aidan camminava lungo la strada nel mezzo della foresta, allontanandosi quanto non aveva mai fatto, sentendosi completamente solo al mondo. Se non fosse stato per il suo cane selvatico che lo accompagnava, sarebbe stato disperato, privo di speranza. Ma Bianco gli dava forza, anche seriamente ferito com’era. Aidan gli accarezzava la corta pelliccia bianca. Entrambi zoppicavano, entrambi acciaccati dopo l’incontro con quel selvaggio conduttore del carro. Ogni passo che facevano provocava loro dolore mentre il cielo si faceva più buio. A ogni passo claudicante che Aidan faceva, giurava che se mai avesse posato di nuovo gli occhi su quell’uomo lo avrebbe ucciso con le sue stesse mani.

Bianco mugolava accanto a lui e Aidan allungГІ una mano per accarezzargli la testa. Il cane era alto quasi quanto lui, piГ№ una bestia selvatica che un cane. Aidan gli era grato non solo per la sua compagnia, ma anche per il fatto che gli aveva salvato la vita. Aveva salvato Bianco perchГ© qualcosa dentro di lui non gli avrebbe permesso di voltargli le spalle e andarsene, e in cambio aveva ricevuto in ricompensa la sua vita stessa. Avrebbe rifatto tutto di nuovo, anche se sapeva che questo significava trovarsi ora piantato lГ  fuori, nel mezzo del nulla, alle prese con fame e morte. Nonostante tutto ne valeva la pena.

Bianco piagnucolГІ ancora e anche Aidan iniziГІ a sentire le fitte allo stomaco per la fame.

“Lo so, Bianco,” gli disse. “Anche io ho fame.”

Aidan abbassГІ lo sguardo per osservare le ferite di Bianco, ancora fresche di sangue, e scosse la testa sentendosi orribile e inutile.

“Farei qualsiasi cosa per aiutarti,” disse. “Mi piacerebbe sapere come.”

Si chinò e lo baciò sulla testa, tra il pelo morbido. Bianco chinò la testa contro la sua. Era l’abbraccio di due individui che percorrevano insieme un cammino di morte. I versi di creature selvagge si levarono producendo una vera e propria cacofonia nella foresta che si faceva più buia e Aidan sentì che le sue piccole gambe gli facevano male, sentì di non poter andare molto oltre, sentì che sarebbero morti lì. Erano ancora distanti intere giornate da qualsiasi posto e con la notte che calava si trovavano ad essere vulnerabili. Bianco, ferito com’era, non era in forma per combattere contro niente e Aidan, disarmato e ferito, non era certo da meglio. Non passavano carri da ore e Aidan sospettava che non l’avrebbero fatto per giorni.

Aidan pensò a suo padre che si trovava là fuori da qualche parte e sentiva di averlo tradito. Se stava per morire, sperava almeno di poterlo fare da qualche parte al fianco di suo padre, combattendo per una buona causa. Oppure a casa, nel conforto di Volis. Non lì da solo, nel mezzo del nulla. Ogni passo sembrava trascinarlo più vicino alla morte.

Aidan rifletteva sulla sua breve vita fino a quel momento, considerando tutte le persone che aveva conosciuto e amato, suo padre e i suoi fratelli, e soprattutto sua sorella Kyra. Pensò a lei, si chiese dove fosse in quel preciso momento, se avesse attraversato Escalon, se fosse sopravvissuta al viaggio verso Ur. Si chiedeva se lei mai pensasse a lui, se sarebbe stata fiera di lui in quel momento, mentre lui cercava così assiduamente di seguire i suoi passi, anche lui nel tentativo di attraversare Escalon per la sua strada, per aiutare suo padre e la sua causa. Si chiese se avrebbe mai vissuto abbastanza per diventare un grande guerriero e provò una profonda tristezza al pensiero di non rivederla mai più.

Aidan si sentiva sprofondare a ogni passo che faceva e non c’era molto che potesse fare eccetto cedere alle sue ferite e all’estrema stanchezza. Procedendo sempre più lentamente guardò versò Bianco e vide che anche lui trascinava le zampe. Presto avrebbero dovuto sdraiarsi e riposare su quella strada, andasse come andasse. Era un’idea spaventosa.

Aidan pensò di aver udito qualcosa, inizialmente debole. Si fermò e tese l’orecchio mentre anche Bianco si immobilizzava guardandolo con espressione interrogativa. Aidan sperava e pregava. Aveva le traveggole?

Poi lo sentì di nuovo. Questa volta ne era certo. Un cigolio di ruote. Di legno. Di ferro. Era un carro.

Aidan si voltГІ con il cuore che perse quasi un battito mentre strizzava gli occhi per vedere nella penombra. Poi, lentamente e con sicurezza, vide qualcosa apparire alla vista. Un carro. Numerosi carri.

Aidan sentì il cuore battergli nella gola rendendolo quasi incapace di contenere l’eccitazione mentre percepiva il tremito, sentiva i cavalli, vedeva la carovana dirigersi verso di lui. Ma poi l’eccitazione si smussò chiedendosi se si trattasse di persone ostili. Dopotutto chi altri poteva essere in viaggio in quel tratto di strada desolata, così lontano da tutto? Lui non poteva combattere e neanche Bianco, che ringhiava sommessamente, aveva tanta forza dalla sua parte. Si trovavano alla mercé di chiunque si stesse avvicinando. Era un pensiero spaventoso.

Il rumore si fece assordante mentre i carri si avvicinavano e Aidan rimase coraggiosamente al centro della strada, rendendosi conto di non potersi nascondere. Doveva approfittare dell’occasione. Gli parve di sentire della musica man mano che si avvicinavano e questo accrebbe la sua curiosità. Poi acquistarono velocità e per un momento pensò che lo avrebbero travolto.

Ma improvvisamente l’intera carovana rallentò e gli si fermò davanti, dato che lui bloccava il passaggio. Lo fissarono mentre la polvere volteggiava attorno a loro. Era un grosso gruppo, forse cinquanta persone, e Aidan sbatté le palpebre sorpreso di vedere che non si trattava di soldati. Si rese anche conto con un sospiro di sollievo che non sembravano essere ostili. Notò che i carri erano pieni di ogni genere di persone: uomini e donne di diverse età. Uno sembrava essere pieno di musicanti che tenevano vari strumenti; un altro di uomini che avevano l’aspetto di giocolieri o commedianti, i volti dipinti di colori brillanti e con indosso pantaloni e tuniche colorati. In un altro carro sembravano esserci degli attori, uomini che tenevano dei rotoli di carta e che stavano chiaramente ripassando i copioni con indosso dei costumi teatrali. In un altro ancora c’erano delle donne poco vestite e molto truccate.

Aidan arrossì e distolse lo sguardo capendo di essere troppo giovane per guardare cose del genere.

“Tu, ragazzino!” gridò una voce. Era un uomo con la barba molto lunga e rossa che gli arrivava alla vita, un uomo particolare dal sorriso amichevole.

“È tua questa strada?” gli chiese scherzosamente.

Da tutti i carri si levarono le risa e Aidan arrossì ancor più.

“Chi siete?” chiese Aidan sorpreso.

“Penso che la domanda più opportuna sia,” rispose l’uomo, “chi sei tu?” Guardarono intimoriti Bianco che ringhiava. “E cosa diavolo ci fai con un cane selvatico. Non sai che ammazzano la gente?” chiesero con paura nella voce.

“Non questo,” rispose Aidan. “Siete tutti… artisti?” chiese ancora curioso, chiedendosi cosa ci stessero facendo tutti lì.

“Una parola graziosa!” gridò qualcuno da un carro con una roca risata.

“Siamo attori, suonatori, giocolieri, giocatori d’azzardo, musici e clown!” esclamò un altro uomo.

“E bugiardi, canaglie e puttane!” gridò una donna facendo ridere tutti di nuovo.

Qualcuno strimpellò un’arpa mentre le risa salivano e Aidan arrossiva nuovamente. Un ricordo gli tornò alla mente di quando una volta aveva incontrato gente del genere, da piccolo, quando ancora vivevano ad Andros. Si ricordò di aver visto degli artisti entrare a fiumi nella capitale per intrattenere il re. Ricordava i loro volti colorati e vivaci, i coltelli che volavano, un uomo che mangiava il fuoco, una donna che cantava, un bardo che recitava poemi. Ricordi che sembravano durare per ore. Ricordava di essere rimasto confuso al pensiero di come qualcuno potesse scegliere una vita del genere e non voler fare il guerriero.

Gli si accesero gli occhi quando improvvisamente capì.

“Andros!” gridò. “State andando ad Andros!”

Un uomo balzò giù da un carro e gli si avvicinò. Era un uomo grande e grosso di forse quarant’anni, con la pancia prominente, la barba marrone spettinata, in sintonia con i capelli ugualmente arruffati. Sorrideva in maniera calorosa. Gli si fece vicino e mise un braccio paterno attorno alle spalle.

“Sei troppo piccolo per startene qua fuori,” disse. “Direi che ti sei perso, ma dalle ferite che avete te e quel cane, oserei dire che c’è dell’altro. Pare che tu ti sia messo in qualche pasticcio e ti ci sia trovato troppo invischiato, sbaglio?” concluse osservando Bianco con cautela. “E aggiungerei che è qualcosa che ha a che fare con l’aver aiutato questa bestia.”

Aidan rimase in silenzio, non sapendo quanto dire mentre, con sua grande sorpresa, Bianco si avvicinava e leccava la mano dell’uomo.

“Il mio nome è Motley,” aggiunse l’uomo allungando una mano.

Aidan lo guardГІ con circospezione. Non gli strinse la mano ma fece un cenno con la testa.

“E il mio è Aidan,” rispose.

“Voi due potete starvene qua fuori a morire di fame,” continuò Motley, “ma non è un modo molto divertente di morire. Io almeno vorrei prima avere qualcosa di buono da mangiare per poi morire in qualche altro modo.”

Tutti nel gruppo si misero a ridere mentre Motley continuava a tenere la mano tesa, guardando Aidan con cortesia e compassione.

“Direi che voi due, feriti come siete, avete bisogno di una mano,” aggiunse.

Aidan rimase fermo e impettito, non volendo mostrare debolezza, proprio come suo padre gli aveva insegnato.

“Stiamo benissimo,” disse.

Motley scoppiò a ridere e così fecero gli altri.

“Come no,” rispose.

Aidan guardò sospettosamente la mano dell’uomo.

“Sto andando ad Andros,” disse.

Motley sorrise.

“Proprio come noi,” rispose. “E siamo fortunati che la città è grande abbastanza per tenerci tutti quanti e anche di più.”

Aidan esitГІ.

“Ci faresti un piacere,” aggiunse Motley. “Possiamo usare del peso extra.”

“E delle bocche extra da sfamare!” esclamò un altro istrione dalla folla, ridendo.

Aidan lo guardГІ diffidente, troppo orgoglioso per accettare, ma trovando un modo per salvarsi la faccia.

“Beh…” disse. “Se vi facciamo un favore…”

Aidan prese la mano di Motley e si trovГІ ad essere tirato sul carro. Era piГ№ forte di quanto si fosse aspettato, dato che, dal modo in cui vestiva, sembrava essere un giullare di corte. La sua mano, nerboruta e calda, era grande due volte la sua.

Motley poi si allungГІ, sollevГІ Bianco e lo mise delicatamente nel retro del carro, accanto ad Aidan. Bianco si accoccolГІ vicino a lui, nel fieno, appoggiandogli la testa in grembo, gli occhi mezzi chiusi per la stanchezza e il dolore. Aidan capiva fin troppo bene quella sensazione.

Motley salì con un balzo e il conduttore fece schioccare la frusta. Il carro partì mentre tutti esultavano e la musica cominciava di nuovo. Era una canzone allegra, uomini e donne pizzicavano le arpe, suonavano flauti e cembali, mentre numerosi altri, con sorpresa di Aidan, danzavano sui carri in movimento.

Aidan non aveva mai visto un gruppo così gaio di persone in vita sua. Aveva trascorso tutta la sua esistenza nel buio e nel silenzio di un forte pieno di guerrieri e non era certo di cosa pensare. Come poteva una persona essere così allegra? Suo padre gli aveva sempre insegnato che la vita era una cosa seria. Tutto questo non era triviale?

Mentre procedevano a scossoni lungo la strada, Bianco mugolava per il dolore mentre Aidan gli accarezzava la testa. Motley si avvicinГІ loro e con sorpresa di Aidan si inginocchiГІ accanto al cane e gli mise delle garze sulle ferite, tamponando con un unguento verde. Lentamente Bianco si quietГІ ed Aidan provГІ grande gratitudine per il suo aiuto.

“Chi sei?” chiese Aidan.

“Beh, ho avuto molti nomi,” rispose Motley. “Il migliore è stato �attore’. Poi c’è stato �furfante’, �giullare’, �buffone’… e la lista continua. Chiamami come vuoi.”

“Non sei un guerriero quindi,” confermò Aidan deluso.

Motley si raddrizzò e rise di piacere con le lacrime che gli scorrevano lungo le guance. Aidan non capiva cosa ci fosse di così divertente.

“Un guerriero,” ripeté Motley scuotendo la testa meravigliato. “Questo è un modo in cui non mi hanno mai chiamato. E non è neanche un appellativo che abbia mai desiderato avere.”

Aidan corrugГІ la fronte senza capire.

“Io discendo da una famiglia di guerrieri,” disse Aidan con fierezza spingendo il petto in fuori mentre stava seduto, nonostante il dolore. “Mio padre è un grande guerriero.”

“Allora sono desolato per te,” disse Motley ancora ridendo.

Aidan era confuso.

“Perché desolato?”

“È un sentenza,” rispose Motley.

“Una sentenza?” ripeté Aidan. “Non c’è nulla di più grande nella vita che essere un guerriero. È tutto ciò che ho sempre sognato.”

“Davvero?” chiese Motley divertito. “Allora mia spiace doppiamente per te. Penso che fare festa e ridere e dormire con bellissime donne sia la cosa più bella che ci sia, molto meglio che sfilare in parata attorno alla campagna sperando di piantare una spade nella pancia di un uomo.”

Aidan arrossì, frustrato. Non aveva mai sentito un uomo parlare di battaglia in quel modo e se ne sentiva offeso. Non aveva mai conosciuto nessuno neanche lontanamente simile a quell’uomo.

“Dov’è l’onore nella tua vita?” chiese Aidan confuso.

“L’onore?” chiese Motley apparendo sinceramente sorpreso. “È una parola che non sento da anni, ed è una parola troppo grossa per un ragazzino come te.” Motley sospirò. “Non penso che l’onore esista, almeno non l’ho mai visto. Una volta pensavo di essere onorevole e questo non mi ha portato da nessuna parte. E poi ho visto troppi uomini onorevoli cadere preda di donne subdole,” concluse tra le risate degli altri sul loro carro.

Aidan si guardГІ attorno, vide tutte quelle persone che ballavano, cantavano e bevevano per passare il tempo e provГІ un miscuglio di sentimenti diversi nel trovarsi tra loro. Erano uomini gentili ma che non avevano il desiderio di condurre una vita da guerriero, che non erano devoti al valore. Sapeva di dover essere riconoscente per il passaggio, e lo era, ma non sapeva come sentirsi riguardo al suo stare insieme a loro. Non erano certo il genere di uomini con cui suo padre avrebbe stretto amicizia.

“Viaggerò con voi,” concluse infine Aidan. “Saremo compagni di viaggio. Ma non posso considerarmi vostro fratello d’armi.”

Motley sgranГІ gli occhi scioccato e rimase in silenzio per dieci secondi buoni, come se non sapesse cosa rispondere.

Poi alla fine scoppiò a ridere, una risata che durò a lungo e riecheggiò tra le voci di quelli che stavano attorno a lui. Aidan non capiva quell’uomo e pensava di non poterci mai riuscire.

“Pensò che mi piacerà la tua compagnia, ragazzino,” disse alla fine Motley, asciugandosi una lacrima. “Sì, penso che mi piacerà un sacco.”




CAPITOLO NOVE


Duncan, affiancato dai suoi uomini, marciava attraverso la capitale di Andros seguito dai passi di migliaia di soldati vittoriosi e trionfanti, le armature che sferragliavano mentre sfilavano nel mezzo di quella città liberata. Ovunque andassero venivano accolti dalle grida trionfanti dei cittadini, uomini e donne, giovani e anziani, tutti vestiti con gli indumenti decorati della capitale, tutti intenti a correre loro incontro lungo le strade ricoperte di ciottoli, gettando fiori e delizie verso di loro. Tuti sventolavano con fierezza le bandiere di Escalon. Duncan si sentiva trionfante nel vedere i colori della sua patria di nuovo alti, nel vedere tutta quella gente – che solo il giorno prima era oppressa – ora così giubilante, così libera. Era un’immagine che non avrebbe mai dimenticato, un’immagine che dava valore a tutto ciò che avevano fatto.

La mattina presto il sole si alzГІ sulla capitale e Duncan si sentiva come se stesse camminando in un sogno. Quello era il posto dove era stato certo di non rimettere mai piГ№ piede, non da vivo e di certo non sotto quelle condizioni. Andros, la capitale. La corona di gioielli di Escalon, sede dei re per migliaia di anni, ora sotto il suo controllo. Il forte pandesiano era caduto. I suoi uomini controllavano i cancelli, le strade, le vie. Era molto piГ№ di quanto avrebbe mai sperato.




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